Pietismo alla Pappano
A 500 anni dalla Riforma la «Passione secondo Giovanni», una delle sue massime espressioni musicali, eseguita in chiave innovativa
Ci sono composizioni che qualificano una stagione. Che danno peso a un cartellone, fissandosi come riferimento per il pubblico. Che fanno bene anche a chi le esegue. Una di queste è la Passione secondo Giovanni di Bach, presentata per tre sere nel fine settimana pasquale a Roma, con i complessi ceciliani e la concertazione affettuosa ma energica di Antonio Pappano. Come rilancio di un rito e, insieme, autentica sfida musicale.
Perché? Basta osservare l’elenco dei direttori che a Santa Cecilia l’hanno guidata: si parte nel 1950 (Bach la compone nel 1724) e per un quarto di secolo i nomi sono quelli di scuola tedesca, da Scherchen a Richter, con la fulgida eccezione di Vittorio Gui, sperimentale, come sempre. Dal 1986 si cambia: sul podio salgono solo gli specialisti dell’antico - Gardiner, Kuijken, Koopman, Brüggen - con le rispettive orchestre. Dunque ospiti, mentre i nostri stanno in panchina. Due sole le eccezioni, affidate a Peter Schreier, già magnifico Evangelista delle più blasonate Passioni d’oltralpe. Ma solista, appunto: tenore. Non direttore.
Ora Pappano osa. Senza mediazioni intellettuali, come è nella sua natura. Senza bisogno di appigli o dichiarazioni, che non siano la pura, efficace, convincente esecuzione. Non è al primo Bach, coi suoi di Santa Cecilia. La Johannes-Passion arriva a coronare un percorso che ha visto negli anni scorsi Passione secondo Matteo, Messa in si minore e Magnificat. Vale a dire tre capitoli fondamentali per grande organico del Kantor.
Che Bach sia uscito dal repertorio delle formazioni sinfonico-corali di oggi si deve essenzialmente a un fatto strumentale. Molti dei destinatari previsti in partitura non fanno più parte dell’assetto stabile di un’orchestra odierna: viole da gamba, oboi da caccia, liuti... La tavolozza del Settecento possedeva molti più colori, forte di un’eccentricità che l’Ottocento livella. Pappano risolve il problema, esattamente come lo risolvevano i Karajan e i Böhm. All’antica: gli strumenti defunti si rimpiazzano con quelli moderni. Scelta discutibile, per i puristi, ma sul piano concreto efficace: tra un oboe d’amore poco intonato e un ottimo corno inglese, è più facile che vinca il secondo. E pazienza per la filologia.
Ma non è questo ammodernamento (che poi oggi suona come invecchiamento, ossia ritorno a una prassi storicamente consolidata) l’aspetto che più interessa nell’interpretazione di Pappano. Perché in verità la sua lettura che non usa tinte anticate, incalza poi con fraseggi, scansioni ritmiche e tenute di tempi assolutamente barocche. In questa mistura di passato e presente, la bellezza della Passione esce ancora più spiccata, assoluta. Nella successione dei numeri del racconto, dal testo evangelico, alternati a riflessioni intinte nel dolente pietismo, si sbalza la potenza di una scrittura sempre grandiosa. Nelle pagine di maestoso contrappunto, certo. Ma anche nei più semplici Corali.
E sono proprio i Corali gli elementi che fungono da punteggiatura di base, nell’esecuzione di Orchestra e Coro di Santa Cecilia, quest’ultimo solidamente preparato da Ciro Visco. Pur alleggeriti nell’organico (come filologia vuole) fraseggiano con tale intensità da riempire la sala. E quelle semplici paginette a quattro parti, pensate per esecutori non professionisti, escono tanto ben caratterizzate da offrirsi come pietre miliari della narrazione: in loro Pappano privilegia il passo affettuoso, la scorrevolezza.
Nei Corali vanno a sciogliersi i momenti della Passione, affidati all’Evangelista aristocratico di Andrew Staples, ma anche le Arie tanto vicine all’opera italiana del Settecento: è Ann Hallenberg, contralto, a dipanare il Molto adagio dell’«Er ist vollbracht», ricamo vibrante sulla morte, forse la pagina più solitaria di una composizione tanto collettiva. Mentre Lucy Crowe, soprano, Christian Gerhaher, baritono tormentato e scolpito, e Roderick Watkins, basso, si alternano nei diversi ruoli.
Il disegno snello delle figurazioni ritmiche rende maggiormente evidenti le forme contrappuntistiche, astratte. Ma insieme anche la scrittura mimetica, dove Bach dipinge letteralmente le azioni della Passione: le domande della folla, ad esempio (quel «Wohin, Wohin?», dove? dove?, epidermico e assillante) oppure la catastrofe del terremoto, che inizia già nel basso del Recitativo, per esplodere poi nel Coro. Cesellate sono le gradazioni dei volumi: tornendo ogni linea di scrittura, Pappano può permettersi molti più “piano” e “pianissimo”, di quanti di solito si ascoltino in Bach. Vanno dal brusio delle quartine iniziali degli archi, misteriose, disorientate, al Corale ultimo, di celestiale serenità. In un’unica
campata, senza cesura tra le due parti di una smerigliata, umanistica Passione, per i cinquecento anni della Riforma luterana.
Johannes-Passion BWV 245 di Bach; Orchestra e Coro dell’Accademia di Santa Cecilia, direttore Antonio Pappano