Non è più solo rock ’n roll
Tra marke ting e conferma di un mito la band continua a piacere Un nuovo documentario li segue in tournée in Sudamerica
«Vediamo il mondo dal punto di vista dei Rolling Stones, nessun altro vede il mondo come lo vediamo noi. Ci sentiamo degli esploratori». Come dargli torto. Mick Jagger è il corpo del rock, la sua spirituale transustanziazione, così come Leonard Cohen ne rappresenta l’anima profonda, David Bowie il cuore pulsante e Jimi Hendrix la sensualità dirompente. Ma Jagger è ancora vivo: fa ginnastica e suda con noi. Il rock ha cambiato il mondo, ha cambiato il sentimento del mondo. E il rock sono i Rolling Stones. Ecco il senso di un film che ce li consegna in modo definitivo. The Rolling Stones, Olé Olé Olé!: A trip across Latin America, firmato da Paul Dugdale, è un voyage d’apprentissage, un memoir e insieme un documentario sociale lungo centocinque minuti, che apparentemente conserva il cliché rassicurante del road movie e racconta qualcosa di per sé banale, forse addirittura noioso: la tournée di quattro ultra-settantenni.
Nove concerti in Sudamerica, più uno (forse) a Cuba. Prima tappa in Cile, poi Argentina, Uruguay, Brasile, Perù, Messico. La metafora domina ogni riflessioni degli Stones, impareggiabili a imitare se stessi, per l’ennesima, forse ultima volta. Il tour? «All’inizio, è come camminare su una fune, che si allarga e diventa un ponte, che puoi attraversare di corsa». Quello che serve, per continuare a gestire, dopo oltre cinquant’anni, energie, ansia, passione e creatività, in un mondo sempre più spento e rassegnato (bisognava averli nei ’60, vent’anni). Olé Olé Olé! ha certamente il sapore del marketing raffinato (perché altrimenti andare ad un concerto degli Stones, nel 2016?) ma, prima di tutto, è cinema escamotage (inaugura un genere), una vera osservazione partecipante di stampo pop-etnografico; in questo senso, ri-
corda Into the Inferno di Herzog, autore di un documentario scientifico sui vulcani che è in realtà il grandioso ritratto della distopia sociale del regime della Corea del Nord; questione di visto, prima che di sguardo; per entrare da quelle parti serviva una buona scusa, l’inferno della lava per raccontare quello della ragione. Qui è la stessa cosa: il celebre logo degli Stones è onnipresente, ma mentre cominciamo a convincerci di essere caduti nella solita trappola (il film commerciale), ogni cosa davanti a noi assume la forma di un grande affresco sociale.
Diretto da un giovane che non viene dalla militanza del cinema documentario radicale né dalla ricerca di storie marginali, ma dalla pubblicità glamour (Red Bull, Adidas, Guinness, American Express). Dugdale deve più di qualcosa ai migliori filmaker del rock, dall’olandese Antony Corbijn allo svedese Bo Johan Renck ( Blackstar di Bowie), oltre che agli autori delle grandi ricognizioni biografiche sul rock (a cominciare da Scorsese, biografo dei Beatles e di Dylan). Con gli Stones aveva già lavorato nel 2013 ( Sweet Summer Sun. Hyde Park Live) e nel 2016 ( The Rolling Stones. Havana Moon in Cuba). Con il triplo Olé, le cose cambiano, e molto. Il film si sviluppa come un unico, ideale piano sequenza sul rock, mostrandoci il suo vero protagonista: non la sacra icona (gli Stones) ma gli adoranti fedeli (il pubblico). Il resto conta poco. Certo non siamo di fronte a One Plus One, film politico sugli Stones di Jean Luc Godard. Era il 1968: il regista della Nouvelle Vague documenta una sessione di prove della canzone icona della band britannica, Sympathy
for the Devil, mettendo da parte la simpatia. Godard cerca il diavolo, che si manifesta alla cinepresa nei tormenti di Brian Jones, dissolto dalle dipendenze (morirà pochi mesi dopo, nella piscina di casa), si nasconde negli slogan marxisti scritti da una attrice sui muri, si rivela nel cimitero di auto dove le Pantere Nere leggono testi rivoluzionari. La musica cambia, nel road movie sudamericano; Jagger, passeggiando in un luminoso cimitero di Buenos Aires, conclude più saggiamente la sua rivoluzione: «specialmente qui, non puoi proprio uscire dall’hotel e fare shopping; devi impegnarti molto di più, per sfuggire ad un autografo». Ma alla fine, non è cambiato nulla, ecco il senso di questo viaggio; che si tratti di cambiare il mondo o di schivare i fans, «in ogni caso, fa parte del gioco, tanto vale godersi l’esperienza». Durante il tour, gli Stones si confrontano con la notevole gamma cromatica, sociale ed emotiva del popolo sudamericano. Paese che vai, militanza che trovi; curioso l’approccio ai Rolingas argentini, comunità di cloni morali degli Stones nata nei primi ’80 nei barrios bajos. Dove la musica, il canto e la danza sono dispositivi esistenziali.
Infine, capitolo Cuba: gli Stones sbarcano finalmente sull’isola nel marzo dello scorso anno, appena cinque giorni dopo il discorso cubano di Barack Obama, il primo Presidente americano a mettervi piede dal 1928, anche se resta il mistero di chi abbia sostenuto la produzione di un concerto gratuito da oltre un milione di spettatori che ha comportato, tra l’altro, il trasporto di oltre sessanta container dal Belgio. Un bagno di folla che non si vedeva dai tempi della Rivoluzione, quando la musica dei Rolling Stones era roba da contrabbando, come Michael Jackson e Springsteen oltre la Cortina di ferro; anche se, negli ultimi anni, la morsa della censura era quasi scomparsa e, comunque, la tecnologia (l’unica vera e invincibile rivoluzione del nuovo Secolo) aveva reso ascoltabile a Cuba qualunque cosa, anche quelle censurabili, semplicemente, dal buon gusto.