Passione dura come una pietra
Qualcosa dentro Gabrielle (Marion Cotillard) le impedisce di vivere, e qualcosa lo impedisce a José (Alex Brendemühl). Delle loro storie racconta Mal di pietre ( Mal de pierres, Francia, Belgio e Canada, 2016, 116’). Fino alle ultime sequenze lo fa come se non potessero mai incontrarsi, ognuna caparbia e chiusa, per quanto in modi diversi. Poi la durezza di pietra allusa nel titolo si frantuma, e le loro anime si aprono.
Inizia sul corpo sensuale di Gabrielle, il film che Nicole Garcia e i suoi cosceneggiatori Natalie Carter e Jacques Fieschi hanno tratto da un racconto di Milena Agus. Immersa fino all’inguine nudo in un piccolo fiume tra le colline provenzali, Gabrielle brucia di desiderio. È giovane, ed è presa in quello che fantastica sia l’amore. Lo vuole, questo amore che non conosce, e che immagina acceso come le colline di lavanda in fiore. Lo vuole contro la volontà di ogni altro, si tratti dell’uomo che desidera, o si tratti del padre Martin (Daniel Para) e della madre Adèle (Brigitte Roüan).
«È malata di nervi, ha bisogno di un uomo, si deve sposare», dice Adèle a José Rabascall, uno dei lavoranti stagionali che hanno appena terminato per lei la raccolta della lavanda. José è catalano e non parla molto. È comunista. Ha combattuto contro i franchisti. Questo dice di fronte a Gabrielle e ai suoi. Poi è dovuto fuggire dalla sua terra e non l’ha più rivista, nemmeno ora che la guerra è passata. Non aggiunge altro. Né altro di lui pretendono di sapere Martin e Adèle. A loro basta che si prenda Gabrielle, che la porti lontana, a La Ciotat, sul mare. Con il suo mestiere di muratore la saprà mantenere. Una volta moglie e madre, lei si tranquillizzerà. Così pensano, certi che sia tutto quello che le spetti, per il suo corpo e per la sua anima.
Gabrielle accetta. Non ha altro modo per fuggir via dalla condanna muta del padre e dal disamore gelido della madre. Ma a José dice che tra loro non ci sarà sesso. José accetta, anche lui, e ne tiene nascosti i motivi in un silenzio che sembra venire dai giorni
lontani della sconfitta.
A chi tra i due guarda con più partecipazione il film della Garcia? Gabrielle ne è al centro. Il suo corpo ne segna il racconto. Duro come pietra è il male che le blocca le reni, e per il quale José la porta in un ospedale tra le montagne. Ma ostinato come pietra è anche il suo desiderio, teso verso un sogno. In quell’ospedale c’è André (Louis Garrel), un tenente che ha lasciato in Indocina giovinezza e salute. Di lui Gabrielle si innamora con l’assolutezza che sua madre ha ridotto a malattia.
Il film della Garcia potrebbe risolversi nel racconto melodrammatico di questo amore. E a José potrebbe toccare un ruolo del tutto secondario. Questo fa supporre la sceneggiatura, che a lungo si dimentica di lui, proprio come se ne dimentica Gabrielle. A La Ciotat José lavora e si costruisce una vita che dedica per intero a lei. Perché lo fa? Perché continua ad accettare che lei lo tenga lontano dalla sua anima ancora più che dal suo letto? E ha un senso narrativo il suo passato di combattente sconfitto, di idealista sradicato? Che cosa c’è in lui di tanto doloroso da imprigionarlo in un amore che pare non avere futuro?
Nel film niente viene nascosto di Gabrielle, né i suoi rifiuti di José né i suoi slanci verso André. Di José, invece, è taciuto tutto, a parte la dolcezza generosa con la quale lascia che Gabrielle si dedichi ai propri sogni, anche a quello del suo amore per André. In fondo, sembra lo abbia anche lui, un sogno: non tanto che nel tempo lei impari, se non ad amarlo, almeno a vivere con lui, quanto che lei, che proprio lei riesca a vivere.
E così arriva l’epilogo. Sono passati quindici o sedici anni. In una vecchia casa di Lione Gabrielle scopre la verità della sua passione per il tenente malato. E scopre come un uomo possa sciogliere e vincere in sé la durezza del passato dedicandosi alla libertà di una donna. Il film si chiude fra le pietre delle colline catalane, in vista della casa cui ora José può tornare. %%%%%