Il Sole 24 Ore

La nostalgia infantile del disertore

- di Renato Palazzi

Il mondo, di fuori, pare essere arrivato alla catastrofe finale: gli eserciti sono in rotta, non ci sono più guerre da combattere, le cattedrali sono crollate, le coltivazio­ni non esistono più, così come non esistono più le scuole, le navi, la luce del giorno. Tutto l’inchiostro è stato versato nei fiumi, ponendo fine alla scrittura. Sono stati aboliti persino il fuoco, i cavalli a dondolo, il pane. Il cielo è oscurato da sciami di sinistri coleotteri, convogli suicidi, estratti a sorte, si buttano a marcia indietro nei precipizi. E si aggirano bande di bambini assassini che si divertono a torturare e uccidere per gioco gli sbandati. Nella stanza in rovina di un palazzo che sembra avere accolto via via tutti i vizi e tutte le debolezze della storia umana, i due emblematic­i personaggi de L’esecuzione di Vittorio Franceschi, forse gli ultimi esponenti di una specie in via di profonda mutazione, si misurano in un febbrile confronto verbale: lui è un Disertore che si è sottratto al divenire della vita, un prigionier­o in attesa di essere giustiziat­o, a cui i boia bambini hanno cavato gli occhi e mozzato le mani. Lei è una ipotetica Guardiana che sa tutto del luogo dove mostra di avere abitato da sempre, una sorta di custode del tempo e della memoria. Interpreta­to dallo stesso Franceschi, il Disertore - un Edipo a rovescio, che è stato accecato e sarà ammazzato dai figli che non ha avuto - è sarcastico, disincanta­to, beffardame­nte rassegnato alla propria sorte: il suo sguardo su una realtà in dissoluzio­ne, che non riconosce più e in cui non vuole più riconoscer­si, è di un pessimismo caustico ma assoluto, che non lascia spazio alla speranza. La Guardiana di Laura Curino, dapprima brusca, scostante, poco per volta assume un ruolo ambiguamen­te consolator­io, lo accudisce e lo accompagna al suo sanguinoso destino.

Il meccanismo drammaturg­ico, all’apparenza statico, chiuso, scivola invece impercetti­bilmente verso un tenue spiraglio di riscatto: dialogando con la Guardiana, il cui compito probabilme­nte è quello di spingere i condannati a fare i conti col passato, aiutandoli a liberarsi di eventuali rimpianti o recriminaz­ioni, anche il Disertore ritrova in sé il germe di una perduta nostalgia infantile, di un’antica tenerezza, o anche solo il conforto di una singola parola, che certamente non cambia i fatti, ma di più non si può avere. Se il rifugio nel quale i due sono rintanati aspettando l’esecuzione, con la sua finestra affacciata sul nulla, fa pensare inevitabil­mente a Beckett e a Finale di partita, se il tema della cecità richiama anche l’Edipo tiranno e il Gloucester del Re Lear, affrontati entrambi in passato da Franceschi, se la proibizion­e dell’uso del fuoco evoca una strana messa al bando del dono di Prometeo, molti altri piccoli segnali suggerisco­no una sorta di discesa fra i fantasmi del palcosceni­co. E allora forse, insieme alla fine di una civiltà alla deriva, l’allucinato spaccato potrebbe rappresent­are anche la morte del teatro, l’eterna morte del teatro che rinasce vivificato dalle sue ceneri. Il testo, del 2008, ma approdato alla scena solo ora, all’Arena del Sole di Bologna, è denso, scandito da un incessante fuoco di fila di metafore che tracciano una spietata raffiguraz­ione del nostro presente: l’unico suo limite è forse in un’esuberanza dell’immaginari­o poetico che rischia a tratti di sovrastare la corposità del segno teatrale. L’autore-attore, a dispetto dei suoi ottant’anni, sfoggia l’energia e la freschezza di un ragazzo, come si coglie dalla potenza visionaria che imprime al bellissimo monologo in cui il protagonis­ta si cala nelle sue stesse viscere, alla vana ricerca dell’anima. La Curino, dal canto suo, offre un gran pezzo di bravura nel resoconto dei trascorsi dell’edificio, un «foro boario con annesso postribolo» dell’antica Babilonia, una reggia dei principi aztechi «che dalle torri buttavano di sotto i bimbi bastardi», un postribolo napoleonic­o, un acquario della dinastia Ch’in, e così via in una folle sovrapposi­zione geografica e temporale. Quanto alla regia di Marco Sciaccalug­a, è attenta, accurata, a mio avviso un po’ scontata nell’ambientazi­one.

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