Ottone, il direttore che aprì il Corriere all’Italia inquieta
L’anno decisivo nella vita del genovese Piero Ottone fu il 1948, quando – ventiquattrenne – salì su un treno per raggiungere Londra, corrispondente della “Gazzetta del Popolo”: «Mi lasciavo alle spalle un Paese mezzo industriale, mezzo contadino e piuttosto provinciale. Ventiquattro ore più tardi scendevo a Victoria Station, e mettevo piede nella capitale di un impero», rievocherà nell’autobiografia, Novanta, uscita nel 2014. Il colpo di fulmine per Londra ricorda quello sperimentato a fine 800 da Mario Borsa, altro grande anglofilo, direttore del “Corriere” dopo la Liberazione. Ma se Borsa era sanguigno e battagliero, Ottone indosserà i panni dello spettatore curioso ma imperturbabile, elegante ed ironico.
Assunto nel ’54 dal “Corriere”, Ottone tornò in patria soltanto nel ’62, come inviato speciale, dopo aver pencolato fra Gran Bretagna, Germania e Unione Sovietica. Occuperà la poltrona di direttore in via Solferino dal ’72 al ’77, succedendo a Giovanni Spadolini. «Sarò ricordato per aver fatto scrivere Pasolini in prima pagina sul “Corriere” e per aver dato spazio alle previsioni del tempo», spiegava divertito. In realtà, l’episodio più citato della sua carriera è un altro: ossia la “cacciata” nell’ottobre ’73 di Indro Montanelli dal quotidiano milanese. Un evento che ha scompigliato la storia del «quarto potere» italiano, inaugurando la stagione dei «giornali-partito» (nel ’74 “il Giornale” di Montanelli, nel ’76 “la Repubblica” di Scalfari), con una coda di brucianti scintille polemiche.
Perché il nuovo corso impresso da Ottone al “Corriere”, con il sostegno della comproprietaria Giulia Maria Crespi, suscitò tanta animosità, sino alle accuse di criptocomunismo? In fondo, Ottone non ha mai abbracciato idee radicali. Nei suoi articoli e libri di costume ha incensato l’arte della grazia, la «dote più importante»; blandito i valori aristocratici, non ancora corrosi dalle ideologie moderne; deplorato il galoppante interclassismo, responsabile di «una pasticciata accozzaglia di individui e di popoli»; condiviso la filosofia della storia di Oswald Spengler, il cui Tramonto dell’Occidente lesse in tedesco a 18 anni. Fosse stato un suddito di Sua Maestà, difficilmente avrebbe votato per il Labour. Però in Italia, negli anni 70, Ottone provò a intercettare gli spifferi d’una temperie turbolenta, rispetto alla quale il “Corriere della Sera” s’era sempre chiuso a riccio. Onde gli Scritti corsari di Pasolini in prima pagina, le scoppiettanti cronache di Giampaolo Pansa sui congressi Dc, le inchieste di Giuliano Zincone sulle «morti bianche», la campagna divorzista.
Come ha osservato lo storico Pierluigi Allotti in un volume appena uscito ( Quarto potere, Carocci), Ottone si sforzò di confezionare un giornale obiettivo, «che fosse credibile agli occhi degli avversari politici, che potesse alternare, per decisione autonoma, approvazioni e critiche al governo, che non fosse legato rigidamente a uno schieramento, e che potesse accogliere istanze provenienti da differenti settori». Il foglio milanese era diventato meno paludato, seppur con una linea spesso confusa, alla mercé dello Zeitgest, non sempre rispettando la sbandierata distinzione tra fatti e opinioni.
Lasciata nel ’77 via Solferino, Ottone passerà a Mondadori e “la Repubblica”, vivendo al fianco di Scalfari la “guerra di Segrate” contro Berlusconi. Negli ultimi anni aveva accentuato il proprio pessimismo per le sorti dell’Italia (un Paese di seconda fila, «con le mani in Europa e con i piedi in Africa», orbato di una vera classe dirigente), senza mai illudersi, al pari di Montanelli, su una ricompensa ultraterrena: «Andiamo nel nulla. Lasceremo per qualche tempo una traccia, sempre più debole. Poi si cancellerà anche quella».