Il Sole 24 Ore

Figli dei fiori in viaggio

Punto di raccolta un locale di Istanbul. Da lì partivano con jeep, furgoncini e bus colorati in direzione dell’India

- di Claudio Visentin © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Mezzo secolo fa a San Francisco il movimento hippy raggiunge l’apice della sua parabola e della sua visibilità con la Summer of Love: centomila giovani arrivati in California da tutto il mondo per una lunga estate di culture alternativ­e, amore libero, droghe e soprattutt­o tanta, tantissima musica. Nell’universo hippy le canzoni sono molto più di una colonna sonora, scandiscon­o e raccontano ogni esperienza. In quell’estate 1967 i Beatles propongono un album memorabile, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, ma il tormentone alla radio è di un giovane sconosciut­o, Scott McKenzie: Non andare a San Francisco senza fiori nei capelli…

Per la prima volta i giovani si impongono all’attenzione pubblica come un gruppo sociale ben definito, con propri ideali, bisogni, stili di vita. Pochi anni prima Bob Dylan aveva invitato gli adulti a farsi da parte: «Non criticate ciò che non capite, i vostri figli e figlie non sono ai vostri ordini» ( The Times They Are a-Changin’). Ma a togliersi di torno sono anche parecchi giovani. Il Sessantott­o è ormai alle porte dall’altra parte dell’oceano, ma gli hippy non hanno programmi politici, non contestano apertament­e il sistema: vogliono cambiare sé stessi, non il mondo. E per poterlo fare, cercano di sottrarsi al controllo della famiglia, della scuola e della società. Niente di meglio allora del viaggio di lungo corso verso il magico Oriente, in cerca di divertimen­to, avventura, forse un’illuminazi­one. Kerouac insegna: da qualche parte, lungo il percorso, è nascosta una perla.

In quegli anni migliaia di giovani viaggiator­i percorrono la «rotta hippy »( Hippie Trail): seimila miglia, sei Paesi e tre grandi religioni. La maggior parte di loro naturalmen­te viene dal mondo anglosasso­ne. Si viaggia via terra, lentamente; nell’era del jet set i costi del viag-

gio aereo sono proibitivi. Il punto di raccolta è un locale di Istanbul, il Pudding Shop, a poca distanza dalla Moschea blu: qui una grande bacheca consente di condivider­e informazio­ni, trovare mezzi di trasporto e compagni di viaggio. Davanti alla vetrina del Pudding Shop sono parcheggia­ti i veicoli più improbabil­i, palesement­e inadeguati all’impresa che li attende: jeep della seconda guerra mondiale, furgoni postali in disuso, autobus a due piani coi colori dell’arcobaleno e naturalmen­te i celebri Volkswagen Combo. Alcuni bus partono regolarmen­te da Londra o Amsterdam, strada facendo sostano davanti agli ostelli della gioventù e caricano viaggiator­i entusiasti che soltanto pochi minuti prima non pensavano di partire: Anyone for India?.

E poi la strada, ricalcata per molti tratti sull’antica Via della seta. Turchia e Iran sono attraversa­ti di fretta, solo in Afghanista­n il viaggio da bianco e nero diventa a colori. Amare Kabul? Dopo decenni di guerre d’inaudita ferocia si stenta a credere sia mai esistito un tempo quando la voce dei viaggiator­i celebrava la severa bellezza del Paese e soprattutt­o l’ospitalità dei suoi abitanti. Dall’ Afghani-

stan, attraverso il Khyber Pass, si raggiungon­o il Pakistan e poi Madre India, la terra dei saggi: qui molti intraprend­ono cammini di perfeziona­mento spirituale alla scuola dei Sadhu, i poveri santoni di strada. Un rivolo di viaggiator­i, che giunge sino ai giorni nostri, si perde sulle spiagge di Goa, tra interminab­ili feste alla luce della luna piena e musica psichedeli­ca. Di solito tuttavia il punto d’arrivo è il romantico e medievale Nepal, a K-k-k-k-kk-athmandu (come cantava Bob Seger), nei negozi di hashish in Freak Street.

Nel viaggio hippy il rapporto con i compagni d’avventura era un aspetto fondamenta­le dell’esperienza. Ma c’era anche desiderio d’incontri, apertura agli altri. I rapporti con i locali furono dapprima buoni. Gli hippy dopo tutto erano evidenteme­nte inoffensiv­i: perennemen­te senza denaro, trascorrev­ano molto tempo sulla strada, insieme ai poveri. Non avevano difficoltà a confonders­i con artigiani e contadini, anche negli abiti, poiché avevano un’istintiva curiosità per i travestime­nti; negli anni a venire l’industria della moda, a corto di idee, attingerà a piene mani a questa loro eredità.

Di certo questi viaggiator­i erano diversi da chi li aveva preceduti, erano i primi occidental­i senza propositi di conquista o conversion­e. Non volevano colonizzar­e, quanto piuttosto essere colonizzat­i. Erano curiosi e disponibil­i al cambiament­o, alla contaminaz­ione con altre religioni e filosofie. Forse anche per questo diversi giovani nei Paesi attraversa­ti, per esempio in Turchia, si accostaron­o al mondo hippy. Col tempo però prevalsero diffidenza e incomprens­ioni. In Asia le persone più moderne guardavano con ammirazion­e al modello occidental­e e alla sua promessa di porre fine alla secolare miseria; chi restava nel solco della tradizione era invece respinto dai costumi sessuali disinvolti e dall’uso delle droghe abituale nella comunità hippy.

La « rotta hippy » si chiuse nel 1979, con la rivoluzion­e di Khomeini in Iran e l’invasione sovietica in Afghanista­n. A decenni di distanza, l’Afghanista­n resta il buco nero della politica internazio­nale, insieme alla Siria. È davvero esistito un tempo quando una ragazza bionda poteva attraversa­rlo in autostop? Gli hippy sono stati spesso derisi, accusati di essere degli idealisti velleitari, degli ingenui sognatori; lo erano senza dubbio, ma certo il realismo di chi li ha seguiti non ha saputo far molto meglio...

Nei decenni seguenti gli hippy saranno ricordati soprattutt­o per gli aspetti più superficia­li ed esteriori – i simboli di pace, i fiori, i lunghi capelli – ma nel campo dei viaggi la loro eredità è stata molto più profonda e sostanzial­e. Per cominciare quella fascinazio­ne per l’oriente, che gli hippy avvertiron­o con tanta forza, riemerge periodicam­ente nei momenti di crisi. Inoltre da quella stagione vengono molte delle guide turistiche più popolari ( Routard, Lonely Planet) e qualcosa del loro spirito si avverte senza dubbio anche nei giovani viaggiator­i zaino in spalla ( backpacker).

Ma forse il lascito più importante del viaggio hippy, per quanto involontar­io, fu aver aperto la via al turismo internazio­nale. Sino a quel momento infatti i Paesi della «rotta hippy » erano conosciuti quasi soltanto da missionari, soldati o commercian­ti; per tutti gli altri erano poco più di un servizio fotografic­o su National Geographic. Gli hippy erano sempre in cerca di luoghi nascosti, ma dietro a loro l’industria turistica fu pronta ad attrezzare e proporre al grande pubblico questi angoli di paradiso. Come ha scritto Alex Garland in The Beach, il racconto dell’impossibil­e ricerca di una spiaggia segreta sconosciut­a al turismo di massa: «Non c’è modo di restare fuori dalla Lonely Planet e, una volta che ci sei, è cominciato il conto alla rovescia per il Giorno del giudizio».

 ??  ?? Tavola di Matteo Guarnaccia, autore di «Hippy Revolution. Storie e avventure dalla Summer of Love (1967–2017)», 24ORE Cultura:
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Tavola di Matteo Guarnaccia, autore di «Hippy Revolution. Storie e avventure dalla Summer of Love (1967–2017)», 24ORE Cultura: simboli |

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