Imprese e famiglie: se le strade si dividono
Ancora una volta, l’Italia è a due velocità. Le imprese hanno più fiducia. Sì, è vero. Chi – nonostante le bombe a grappolo lanciate contro la globalizzazione da Trump e dai neoprotezionisti di ogni Paese – opera bene sui mercati stranieri si sente meglio ogni giorno. Sì, è altrettanto vero. Il grosso del nostro motore manifatturiero, però, non è ripartito. Le costruzioni e l’edilizia – terminali di molti comparti - continuano a sgretolarsi.
E il fenomeno dell’Industry 4.0 , per quanto sostenuto dalle policy fiscali soprattutto nella formula elementare della sostituzione delle macchine utensili, stenta ad assumere – nel Paese profondo, composto dalle piccole imprese e dagli artigiani – quella portata radicale e quella forza pervasiva con cui sta già rimodellando i tessuti economici della Germania e degli Stati Uniti. Tanto che, da noi, non si innesca un effetto sistemico in grado di riordinare e di rinvigorire la manifattura nel suo insieme da un lato e, dall’altro, di lenire la paura delle famiglie e dei consumatori migliorandone le condizioni di vita materiali. Ogni giorno i dati statistici vengono sgranati come un rosario. E ripropongono la stessa litania. L’indice di fiducia, rilevato dall’Istat ogni mese, ha evidenziato per le imprese un aumento dai 105,1 punti di marzo ai 107,4 punti di aprile; soltanto pochi mesi fa, a dicembre del 2016, era pari a 100,8 punti. Il dato di aprile è il valore più elevato dall’ottobre 2007, anche se va considerato l’effetto ottico di una rilevazione sulla fiducia effettuata su imprese che, da allora, hanno perso per la Grande Crisi un quinto del loro organismo tecno-produttivo e hanno visto indebolirsi un pezzo non piccolo del loro cuore e della loro mente strategica. In ogni caso, la dinamica di medio periodo sulle imprese è positiva.
Invece, l’indice di fiducia per i consumatori è, ad aprile, rimasto stabile rispetto a marzo: da 107,6 a 107,5 punti ; soltanto pochi mesi fa, a dicembre del 2016, era pari a 110,9 punti. In discesa. Dunque, c’è un disallineamento fra la fiducia delle imprese e la fiducia dei consumatori.
Il che appare coerente con quanto illustrato mercoledì della scorsa settimana, nell’audizione sul Def davanti alle Commissioni Bilancio del Parlamento, da Roberto Monducci dell’Istat: 7 milioni e 209mila italiani – 7 milioni e 209mila italiani - vivono in gravi condizioni economiche. L’aria, quindi, non è cambiata.
Fra economia e società, il cuore della questione è l’attuale fisionomia del sistema produttivo: tutto questo accade anche perché l’Italia bipolare – una minoranza che fa bene o benissimo sui mercati internazionali e una maggioranza spiaggiata sull’arenile del mercato interno - non sembra più una configurazione temporanea della nostra industria. Inizia, piuttosto, ad assomigliare a un destino. Il che è un problema. Un grosso problema.
Nello stesso giorno in cui mostra le direzioni opposte della fiducia delle imprese e della fiducia dei consumatori, l’Istituto centrale di statistica rimarca un altro sentiero tracciato da tempo: nei primi tre mesi, su base annua, le esportazioni verso i mercati extra Ue sono aumentate – al netto dell’energia – del 10,8% (beni strumentali +11,9% e beni intermedi +7,6%). Il problema è che, nonostante il miglioramento della fiducia registrato dalle imprese, il Paese nel suo complesso non riesce a rompere il paradigma del 20-80: è il 20% delle aziende italiane a sviluppare l’80% dell’export e l’80% del valore aggiunto. E le altre?
Un esempio della bipolarizzazione debole, ai limiti della schizofrenia, è rappresentato dall’edilizia, con i volumi della produzione di calcestruzzo in flessione – a causa della Grande Crisi – ormai da dieci anni. Chi opera in Italia è bloccato. Sono utili le misure di policy, come il pacchetto di incentivi di Industry 4.0 che ha provocato, nel primo trimestre del 2017, un aumento tendenziale degli ordini interni pari al 22,2 per cento. Il punto è, però, costituito dalla struttura su cui queste misure vanno a cadere: secondo l’Ucimu, gli impianti produttivi italiani hanno una anzianità media di 13 anni. Il disallineamento cronico – fra imprese e consumatori, fra imprese e cittadini – e la bipolarizzazione fra una élite di aziende e la maggioranza che arranca sono spiegabili con l’assenza di un effetto onda, in grado di generarsi dall’interno delle nostre fabbriche e dei nostri laboratori e di investire tutto e tutti, propagandosi nella società e nell’economia.
Capitò negli anni Cinquanta – al tempo del Boom – e negli anni Ottanta, quando l’intero sistema industriale italiano si modernizzò profondamente con l’arrivo dei robot e l’introduzione di massicce dosi di automazione. Oggi non sta – ancora (?) – succedendo.