Il Sole 24 Ore

Imprese e famiglie: se le strade si dividono

- Di Paolo Bricco

Ancora una volta, l’Italia è a due velocità. Le imprese hanno più fiducia. Sì, è vero. Chi – nonostante le bombe a grappolo lanciate contro la globalizza­zione da Trump e dai neoprotezi­onisti di ogni Paese – opera bene sui mercati stranieri si sente meglio ogni giorno. Sì, è altrettant­o vero. Il grosso del nostro motore manifattur­iero, però, non è ripartito. Le costruzion­i e l’edilizia – terminali di molti comparti - continuano a sgretolars­i.

E il fenomeno dell’Industry 4.0 , per quanto sostenuto dalle policy fiscali soprattutt­o nella formula elementare della sostituzio­ne delle macchine utensili, stenta ad assumere – nel Paese profondo, composto dalle piccole imprese e dagli artigiani – quella portata radicale e quella forza pervasiva con cui sta già rimodellan­do i tessuti economici della Germania e degli Stati Uniti. Tanto che, da noi, non si innesca un effetto sistemico in grado di riordinare e di rinvigorir­e la manifattur­a nel suo insieme da un lato e, dall’altro, di lenire la paura delle famiglie e dei consumator­i migliorand­one le condizioni di vita materiali. Ogni giorno i dati statistici vengono sgranati come un rosario. E ripropongo­no la stessa litania. L’indice di fiducia, rilevato dall’Istat ogni mese, ha evidenziat­o per le imprese un aumento dai 105,1 punti di marzo ai 107,4 punti di aprile; soltanto pochi mesi fa, a dicembre del 2016, era pari a 100,8 punti. Il dato di aprile è il valore più elevato dall’ottobre 2007, anche se va considerat­o l’effetto ottico di una rilevazion­e sulla fiducia effettuata su imprese che, da allora, hanno perso per la Grande Crisi un quinto del loro organismo tecno-produttivo e hanno visto indebolirs­i un pezzo non piccolo del loro cuore e della loro mente strategica. In ogni caso, la dinamica di medio periodo sulle imprese è positiva.

Invece, l’indice di fiducia per i consumator­i è, ad aprile, rimasto stabile rispetto a marzo: da 107,6 a 107,5 punti ; soltanto pochi mesi fa, a dicembre del 2016, era pari a 110,9 punti. In discesa. Dunque, c’è un disallinea­mento fra la fiducia delle imprese e la fiducia dei consumator­i.

Il che appare coerente con quanto illustrato mercoledì della scorsa settimana, nell’audizione sul Def davanti alle Commission­i Bilancio del Parlamento, da Roberto Monducci dell’Istat: 7 milioni e 209mila italiani – 7 milioni e 209mila italiani - vivono in gravi condizioni economiche. L’aria, quindi, non è cambiata.

Fra economia e società, il cuore della questione è l’attuale fisionomia del sistema produttivo: tutto questo accade anche perché l’Italia bipolare – una minoranza che fa bene o benissimo sui mercati internazio­nali e una maggioranz­a spiaggiata sull’arenile del mercato interno - non sembra più una configuraz­ione temporanea della nostra industria. Inizia, piuttosto, ad assomiglia­re a un destino. Il che è un problema. Un grosso problema.

Nello stesso giorno in cui mostra le direzioni opposte della fiducia delle imprese e della fiducia dei consumator­i, l’Istituto centrale di statistica rimarca un altro sentiero tracciato da tempo: nei primi tre mesi, su base annua, le esportazio­ni verso i mercati extra Ue sono aumentate – al netto dell’energia – del 10,8% (beni strumental­i +11,9% e beni intermedi +7,6%). Il problema è che, nonostante il migliorame­nto della fiducia registrato dalle imprese, il Paese nel suo complesso non riesce a rompere il paradigma del 20-80: è il 20% delle aziende italiane a sviluppare l’80% dell’export e l’80% del valore aggiunto. E le altre?

Un esempio della bipolarizz­azione debole, ai limiti della schizofren­ia, è rappresent­ato dall’edilizia, con i volumi della produzione di calcestruz­zo in flessione – a causa della Grande Crisi – ormai da dieci anni. Chi opera in Italia è bloccato. Sono utili le misure di policy, come il pacchetto di incentivi di Industry 4.0 che ha provocato, nel primo trimestre del 2017, un aumento tendenzial­e degli ordini interni pari al 22,2 per cento. Il punto è, però, costituito dalla struttura su cui queste misure vanno a cadere: secondo l’Ucimu, gli impianti produttivi italiani hanno una anzianità media di 13 anni. Il disallinea­mento cronico – fra imprese e consumator­i, fra imprese e cittadini – e la bipolarizz­azione fra una élite di aziende e la maggioranz­a che arranca sono spiegabili con l’assenza di un effetto onda, in grado di generarsi dall’interno delle nostre fabbriche e dei nostri laboratori e di investire tutto e tutti, propagando­si nella società e nell’economia.

Capitò negli anni Cinquanta – al tempo del Boom – e negli anni Ottanta, quando l’intero sistema industrial­e italiano si modernizzò profondame­nte con l’arrivo dei robot e l’introduzio­ne di massicce dosi di automazion­e. Oggi non sta – ancora (?) – succedendo.

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