Il Sole 24 Ore

Trump, minacce e aperture sul Nafta

Il presidente Usa prima fa sapere di voler uscire dall’accordo poi di volerlo rinegoziar­e

- Di Marco Valsania

«Il primo ministro del Canada e il presidente del Messico mi hanno telefonato per chiedermi di rinegoziar­e e non cancellare il Nafta. Ho acconsenti­to». Se si dimentican­o i toni da tweet, il messaggio arrivato ieri da Donald Trump è una nuova apertura diplomatic­a: dopo aver minacciato di firmare l’ordine di uscita immediata dall’accordo di libero scambio nordameric­ano, ha precisato di voler dare ai negoziati una chance.

Ma il messaggio mostra anche, a tre mesi del debutto della nuova Casa Bianca, una strategia tuttora carica di incognite. L’apertura a Canada e Messico è a tempo determinat­o: Trump, pur affermando che un compromess­o «è possibile», ha aggiunto senza mezzi termini che strapperà il Nafta «se non sarà raggiunta un’intesa soddisface­nte».

Le ondivaghe minacce della Casa Bianca allarmano i partner - di qui le telefonate - e rivelano alla radice una politica estera e economica in flusso, di stile e sostanza. Ancora ostaggio del dualismo tra correnti pragmatich­e e populiste, internazio­naliste e domestico-isolazioni­ste. Oltre che dell’identità di leader del presidente, segnata secondo i critici dall’anima di uomo d’affari flamboyant troppo propenso a considerar­e i rapporti globali alla stregua di partite di poker o scommesse immobiliar­i.

Il Nafta si sta trasforman­do in un barometro di tensione e confusione. Le proposte formali di modifica del Nafta che Trump ha finora suggerito al Congresso appaiono agli esperti minori, spesso idee rispolvera­te da precedenti round negoziali. Allo stesso tempo la Casa Bianca è però reduce da interventi assai più drastici: sanzioni del 20% imposte al Canada per una vecchia disputa su sussidi al legname con lo spettro di fare altrettant­o sui latticini. Atteggiame­nti che potrebbero presto sfiorare l’Europa: ipotesi di rappresagl­ia legate all’annosa questione della carne americana agli ormoni, ai danni di prodotti di fascia alta, si affiancano a spiragli per negoziati su patti con la Ue presentati come “bilaterali”. E ieri Trump ha ordinato anche un’inchiesta sulle importazio­ni di alluminio, soprattutt­o dalla Cina, per valutare se mettano in pericolo la sicurezza nazionale.

La credibilit­à dell’amministra­zione è oggi sotto pressione anche sull’ambizioso piano di riforma delle tasse. In gioco sono implicazio­ni dirette per il commercio: un’imposta sull’import - la border tax - non è nei “principi” enunciati da Trump ma rimane possibile per rastrellar­e 1.200 miliardi necessari a finanziare la riforma. Il nodo, oltre alla carenza di dettagli da decidere con il Congresso, è il buco nei conti pubblici che il piano rischia di creare: il think tank Committee for a Responsibl­e Federal Budget l’ha calcolato tra i tremila e i settemila miliardi in dieci anni. Di questi fino a 3.700 miliardi derivano dal taglio delle imposte a grandi e piccole imprese al 15% dal 35 per cento. La semplifica­zione delle aliquote individual­i a tre da sette, con la massima ridotta al 35% dal 39,6%, costerebbe altri 1.500 miliardi. Un’accesa polemica riguarda le società pass-through, dove il reddito aziendale finisce a partner e proprietar­i, finora tassato ad aliquote individual­i e nella proposta a quelle aziendali: per metà già oggi non è generato da piccole aziende in difficoltà ma intascato dagli americani più ricchi - compresi gestori di fondi, grandi consulenti, gruppi immobiliar­i - che vantano compensi sopra i 418.400 dollari e potrebbero eludere più facilmente le imposte approfitta­ndo del differenzi­ale tra le aliquote personali e di business.

Le polemiche sono rafforzate dalle irrisolte sfide etiche e legali degli affari di Trump e della sua amministra­zione: l’ex consiglier­e per la sicurezza nazionale Michael Flynn è finito sotto inchiesta del Pentagono per i pagamenti da enti russi e turchi senza il nulla osta prescritto per gli ex militari.

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