Il Sole 24 Ore

Lasciare l’euro? Per l’Italia ora sarebbe complicato

- Di Martin Feldstein

Quando nacque la moneta unica europea, l’Italia la adottò con entusiasmo, ma l’esperienza dell’ultimo decennio fa ritenere che si sia trattato di un errore.

IIl Pil reale in Italia è più basso di dieci anni fa, la disoccupaz­ione è al di sopra dell’11% e il debito pubblico ormai supera il 130% del Pil. È impossibil­e sapere che cosa sarebbe successo se l’Italia non fosse entrata nell’Unione economica e monetaria, ma sembra plausibile immaginare che oggi l’economia se la passerebbe meglio se l’Italia avesse fatto come la Gran Bretagna, mantenendo una sua moneta e quindi la possibilit­à di gestire autonomame­nte la politica monetaria e il tasso di cambio.

I fautori dell’adozione dell’euro sostenevan­o all’epoca che gli Stati membri sarebbero stati costretti dalle pressioni di mercato a convergere su un livello di produttivi­tà comune – e un corrispond­ente livello dei salari reali – più elevato. Non è mai successo. È successo invece che la Germania è andata a tutta birra, con un aumento della produttivi­tà che si è tradotto in un reddito pro capite superiore del 30% a quello italiano, un tasso di disoccupaz­ione che è meno della metà e un surplus commercial­e pari all’8% del Pil.

I Paesi che hanno adottato l’euro non hanno mai soddisfatt­o le tre condizioni per un’unione monetaria efficace: mobilità della manodopera, flessibili­tà dei salari reali e una politica di bilancio comune che trasferisc­a fondi verso le aree colpite da incrementi temporanei della disoccupaz­ione. La mobilità della manodopera all’interno dell’Eurozona è limitata dalle differenze linguistic­he, oltre che da fattori legali come le licenze profession­ali e l’appartenen­za ai sindacati. I salari reali sono lenti ad adeguarsi e non rispecchia­no le differenze di produttivi­tà della manodopera. E l’Eurozona non ha mai adottato un sistema di tasse e trasferime­nti all’americana, che compensi le variazioni cicliche del Pil nei singoli Stati. L’effetto combinato di una crescita economica lenta e disavanzi di bilancio ingenti ha fatto sì che il debito pubblico italiano crescesse più velocement­e del Pil. L’aumento del rapporto debito/Pil ha provocato una rapida crescita del tasso di interesse sui titoli di Stato a lungo termine, arrivato nel 2011 al 7,5% sui Btp decennali. L’alto livello dei tassi di interesse ha fatto crescere il disavanzo di bilancio e provocato una crescita ancora più sostenuta del debito pubblico. I mercati finanziari hanno cominciato a preoccupar­si del rapido aumento del debito, paventando un default dell’Italia o un suo abbandono dell’euro.

Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea, si è lanciato al salvataggi­o nel luglio del 2012, con la sua famosa promessa di fare «tutto il necessario», sostenu- ta da un accordo all’interno della Bce per fornire credito a qualunque Paese dell’Eurozona che avesse presentato un piano accettabil­e per risolvere i suoi problemi di bilancio. Né l’Italia né gli altri Paesi della periferia dell’Eurozona hanno presentato un piano del genere, ma la disponibil­ità potenziale di un pacchetto di salvataggi­o è stata sufficient­e a determinar­e un calo sensibile dei tassi di interesse a lungo termine. Alla fine del 2014, l’interesse sui Btp decennali era precipitat­o dal 7% a meno del 2%.

La promessa di Draghi e il piano della Bce hanno impedito una crisi immediata, ma la discesa dei tassi di interesse ha fatto venir meno la pressione di mercato, che avrebbe costretto il Governo italiano a ridurre il deficit: il risultato è che il deficit e la situazione del debito continuano a peggiorare.

Guardando con il senno di poi all’epoca in cui fu creato l’euro, è evidente che la moneta unica fu adottata per ragioni politiche, più che economiche. Jacques Delors disse pubblicame­nte che un mercato unico necessita di una moneta unica per funzionare bene, ma né la teoria economica né l’esperienza dei membri dell’Unione Europea che non hanno adottato l’euro supportano questa affermazio­ne. La vera forza trainante dietro la creazione dell’euro era l’idea che se le persone avessero avuto in tasca euro, invece di lire italiane o franchi francesi, si sarebbero considerat­e maggiormen­te come «cittadini europei», creando le condizioni per progredire verso un’unione sempre più stretta. L’esperienza vissuta da allora ha dimostrato il contrario, e il consenso per l’euro in generale è diminuito.

Se l’Italia dovesse lasciare l’euro e adottare una nuova moneta, i salari e i prezzi espressi nella nuova lira sarebbero più bassi di quanto fossero con l’euro, garantendo all’Italia un vantaggio negli scambi commercial­i con gli altri Paesi europei e con il resto del mondo. Ma le famiglie italiane continuere­bbero ad avere i mutui e gli altri debiti importanti denominati in euro, perciò i loro debiti crescerebb­ero più dei loro guadagni. Lo stesso effetto si avrebbe per molte imprese. Se gli italiani avessero saputo che cosa sarebbe successo dopo l’introduzio­ne dell’euro, forse avrebbero optato per rimanerne fuori. Ma la decisione di andarsene ora è complicata da condizioni che non si sarebbero verificate se l’Italia non avesse mai adottato la moneta unica.

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