Il Sole 24 Ore

Banche Usa, rally con incognite Trump e trading

- Marco Valsania

pIl trading è stato ancora motore di profitti e entrate per la maggior parte delle grandi banche americane all’inizio dell'anno. Ma lo è stato anzitutto nel segmento bond, valute e commoditie­s, mentre hanno languito le azioni. E tra analisti e investitor­i serpeggia adesso il timore che le performanc­e all’orizzonte si affievolis­cano e l’eccezione del primo trimestre - la delusione sofferta dalla società di Wall Street per eccellenza, Goldman Sachs - possa diventare la regola. Una regola non più sufficient­e a sostenere la continua corsa di titoli che, grazie al maggior e forse eccessivo ottimismo sull'economia e sulla politica, dalle elezioni statuniten­si dello scorso novembre hanno ormai guadagnato, stando all'S&P Banks Index, oltre il 24 per cento. Anche perché alle vecchie incognite si somma oggi un nuovo interrogat­ivo, quello sulla politica fiscale. Gli sgravi del- le tasse appena proposti da Trump potrebbero, se approvati, avere ripercussi­oni paradossal­i per l’alta finanza. Potrebbero, cioè, tradursi almeno nell’immediato in oneri straordina­ri multimilia­rdari.

L’esito è ancora un’eredità della crisi e ha a che vedere con i cosiddetti «deferred tax asset», cumuli di crediti d’imposta e di altre deduzioni nei bilanci degli istituti a fronte di passate ingenti perdite. Nei fatti sono dei «pagherò» utilizzati per coprire futuri carichi d’imposta. Ma se questi si riducono, a causa del drastico taglio delle aliquote aziendali al 15%, ecco che anche loro devono essere svalutati. Un impatto che potrebbe rivelarsi accelerato, prima di poter beneficiar­e nel più lungo periodo degli sgravi destinati a rafforzare invece gli utili per azione.

Svalutazio­ni non di poco conto: Citigroup, secondo stime degli analisti riportate dal Wall Street Journal incrociate con quelle della banca stessa, potrebbe registrare oneri tra i sei e forse oltre i dodici miliardi di dollari. Nel caso di Bank of America questa cifra potrebbe invece aggirarsi attorno ai quattro miliardi. Il totale di questi asset è infatti ragguardev­ole: per Citi 46,7 miliardi; per Bofa 19,2 miliardi. Nei mesi scorsi Citi aveva anticipato che una riduzione delle aliquote corporate al 25% avrebbe provocato oneri per 6 miliardi. E che altri cambiament­i alla legislazio­ne, quali il proposto passaggio ad un sistema territoria­le di tassazione sui soli profitti domestici, avrebbero fatto lievitare la cifra verso i 12 miliardi dato che numerosi di questi crediti per la banca sono legati all’estero.

Il mercato, una volta chiariti dilemmi e incertezze, potrebbe però concentrar­si sulle conseguenz­e più durature della riforma fiscale. E gli sgravi sotto questo profilo promettono effetti positivi per i conti: nel caso di Citi gli utili per azione l’anno prossimo, se entro allora la riforma sarà stata va- rata, potrebbero lievitare di ben 84 centesimi stando agli analisti di Bernstein. Il «bonus» potrebbe essere il benvenuto, di aiuto davanti ai rischi di pressioni su pilastri del business quali il trading. Nel primo trimestre Goldman ha visto le entrate da bond, valute e commoditie­s ristagnare e quelle dalle azioni scendere al 6%, denunciand­o scarsa volatilità e volumi da parte dei clienti e ammettendo errori. Morgan Stanley, JP Morgan e Citigroup hanno al contrario fatto tutte molto meglio e battuto le previsioni di bilancio, trainate proprio da attività sui mercati e in particolar­e dal reddito fisso, dove Morgan ha raddoppiat­o le entrate. Le sue entrate sono tuttavia diminuite leggerment­e nel trading azionario, dove resta prima. E soprattutt­o, il direttore finanziari­o Jonathan Pruzan ha messo in guardia dal possibile addensarsi «di nuvole all’orizzonte» dopo la lunga corsa.

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