Perché i socialisti non sanno più vincere
In quasi mezzo secolo di vita, il partito socialista francese non aveva mai subìto una sconfitta così bruciante come quella accusata domenica scorsa nel primo turno delle elezioni presidenziali. Tanto che Benoit Hamon è risultato, con uno striminzito 6% dei suffragi, il meno votato fra i cinque principali candidati all’Eliseo. D’altronde va detto che, seppur in modo non così impietoso, la sua sorte era apparsa segnata fin dal primo momento, dopo che François Hollande (a conclusione di un quinquennato deludente) aveva deciso di non ripresentarsi e l’ex premier socialista Manuel Valls aveva perso le primarie proprio contro Hamon. Era quindi pressoché scontata la scelta, fatta subito dopo i primi exit poll dal vertice del partito, di fare appello ai propri militanti perché al ballottaggio votino il centrista Emmanuel Macron pur di sbarrare il passo alla leader dell’ultradestra Marine Le Pen.
Resta tuttavia da stabilire quali siano state le precipue cause della débâcle in cui è incappato quello che costituiva da tanto tempo uno dei caposaldi più eminenti della sinistra europea. I motivi preminenti che hanno segnato la disfatta del candidato socialista vanno rintracciati soprattutto nella sindrome che ha colpito negli ultimi anni anche altre componenti riformiste della sinistra europea, dovuta al loro crescente disorientamento di fronte alle profonde trasformazioni su più versanti in corso dall’inizio del ventunesimo secolo. Un complesso di mutamenti di scenario e di prospettiva che hanno a che fare con le molteplici conseguenze del processo di globalizzazione, con la formazione di un universo politico multipolare e proteiforme, con gli effetti della rivoluzione tecnologica del digitale sul mercato del lavoro, col sopravvento della finanziarizzazione sull’“economia reale” della produzione dei servizi, e, non certo da ultimo, con il prolungamento dell’aspettativa di vita che, rendendo più costosi la sanità e il sistema previdenziale, sta incrinando le architravi del Welfare. E che hanno avuto per risultato il tramonto di un’intera epoca, contraddistinta da una sostanziale stabilità internazionale, da una pressoché ininterrotta supremazia dell’Occidente, da una lunga evoluzione economica e da un’ondata di crescenti aspettative di benessere sociale.
È vero che anche la destra liberal-moderata si trova oggi a vivere la fine di questa stagione. Ma è soprattutto la sinistra alle prese con le questioni imposte da una svolta così dirompente, in quanto si considera da sempre investita, per la sua ragion d’essere e la sua vocazione pedagogica, del compito politico di dare una risposta valida e confacente agli interrogativi del proprio tempo e di costruire un avvenire in senso progressista. Si comprende perciò come essa stia oggi arrancando di fronte alle remore che incontra nel disincagliarsi da certi vecchi assunti ideologici e alla difficoltà di elaborare nuove idee-forza e proposte concrete e coerenti per il domani. Allo stesso modo in cui è avvenuto già altre volte nella sua storia, è ricomparsa così nel suo ambito una malattia congenita, quella di una contrapposizione radicale fra le sue diverse anime, fautrici di orientamenti fra loro incompatibili.
Di fatto, ancor prima dell’irruzione sulla scena di JeanLuc Mélenchon che ha concorso adesso ad affondare la candidatura di Hamon, si è assistito nel corso degli ultimi anni all’indebolimento in Germania della Spd (dopo la nascita di Die Linke), alla scomparsa in Grecia del Pasok (surclassato da Syriza), al declino in Spagna del Psoe (dopo l’avvento di un movimento come “Podemos”), alla caduta verticale nelle recenti elezioni in Olanda del Partito del Lavoro (dopo il distacco dalla sua costola di una frangia radicale), alla riduzione su posizioni marginali vetero-massimaliste del partito laburista inglese, falcidiato dalla diaspora di numerosi parlamentari di matrice blairiana. Inoltre, in Italia, la separazione dal partito democratico del gruppo capitanato da Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema, che ha costituito il nuovo partito dei democratici e progressisti, potrebbe finire col giocare a tutto vantaggio di Cinquestelle.
Insomma, risulta evidente che soltanto un profondo rinnovamento della cultura politica e di governo della sinistra europea, di fronte alle sfide cruciali del nostro tempo, potrà rilanciare il suo ruolo e la sua sfera d’azione.