Il Sole 24 Ore

Basterà Macron a salvare l’Europa?

- Di Sergio Fabbrini

Sono in molti a pensare che la prossima domenica, a Parigi, si deciderà il futuro dell’Unione europea. La Francia è un paese indispensa­bile per la Ue. Quest’ultima, senza la Francia, non potrebbe esistere. Una Francia anti-europeista lascerebbe la Germania in un vuoto politico. Con una Francia simile, la Germania perderebbe il principale alleato (e la principale ragione) per sostenere il progetto di integrazio­ne. Ecco perché la scelta tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen ha assunto una valenza esistenzia­le per l’intero continente. Se Macron vincerà, la Ue potrà tirare un sospiro di sollievo. Tuttavia, sarebbe bene non pensare che, con quella vittoria, la nottata sarà passata. Essa in realtà rimarrà fonda, sia per cause politiche che istituzion­ali.

Sul piano politico, il primo turno delle elezioni presidenzi­ali francesi ha confermato l’esistenza di un elettorato anti-europeista addirittur­a in crescita. Nelle elezioni presidenzi­ali del 2002, che videro una competizio­ne analoga a quella di domenica prossima, il candidato n azionali staJea nMari eL ePen(p ad redi Marine Le Pen) ottenne appena il 17,8 per cento dei voti. Quindici anni dopo, Marine Le Pen è una candidata con serie possibilit­à di successo. E se anche perderà, perderà ottenendo almeno il doppio dei voti ricevuti dal padre quindici anni prima. Sommando la destra nazionalis­ta e la sinistra radicale di Jean-LucMélench­on, l’anti-europeismo ha conquistat­o (quasi) la metà dell’elettorato francese. Lo stesso vale per altri Paesi europei, come il nostro, in cui l’anti-europeismo dei 5 Stelle, della Lega e della destra nazionalis­ta potrebbe condurre ad una quasi-maggioranz­a nel prossimo parlamento. Con l’eccezione della Germania, l’anti-europeismo è diffuso al nord come al sud della Ue, per non parlare dei Paesi dell’Est europeo. In queste condizioni, accontenta­rsi che le forze europeiste abbiano vinto un’elezione in Austria e in Olanda, o che le vincano la settimana prossima in Francia, è del tutto ingiustifi­cabile. Se la metà degli elettorati nazionali è (divenuta) anti-europeista, occorre domandarsi perché?

La mia risposta è che in quella metà dell'elettorato ci sono certamente forze sociali e culturali che si riconoscon­o esclusivam­ente nello stato nazionale, tuttavia l'anti-europeismo di quell'elettorato è stato alimentato anche dagli insuccessi delle politiche perseguite dall'Ue negli anni delle crisi.

Nel sud dell’Europa, l’anti-europeismo è il risultato degli effetti sociali della crisi dell’euro e della incontroll­ata crisi migratoria. Nel nord, è stata la seconda crisi, più che la prima, a favorire l’anti-europeismo. In paesi come la Francia, si è aggiunta anche l’insicurezz­a generata dagli attacchi terroristi­ci. A queste specifiche crisi, l’Ue ha risposto in modo debole e incerto. Con l’esito così di spingere, nel campo di coloro che sono contro l’Ue “per quello che è”, coloro che sono diventati anti-Ue “per quello che (non) ha fatto o ha fatto male”. Certamente, la sfida anti-europeista va affrontata senza incertezze. Ciò però non basta. Occorre far fare un salto in avanti al processo di integrazio­ne, federalizz­ando le politiche della sicurezza, migratoria e fiscale. Solamente così sarà possibile sottrarre all’anti-europeismo coloro che lo sostengono perché penalizzat­i da politiche europee incerte quando non sbagliate.

Le elezioni francesi tengono l’Europa con il fiato sospeso anche per ragioni istituzion­ali. Cosa succedereb­be, sul piano delle decisioni europee, se Marine Le Pen venisse eletta presidente della Francia domenica prossima? E se ieri Geert Wilders fosse stato nominato primo ministro olandese? E se domani Luigi Di Maio diventasse presidente del Consiglio dei Ministri italiano? Succedereb­be che tutti loro entrerebbe­ro nel Consiglio europeo dei capi di governo degli stati membri dell’Ue, ovvero nell’organismo che rappresent­a la volontà politica di quest’ultima. Per di più, in quell’organismo si troverebbe­ro in buona compagnia, dato che già ora esiste un gruppo consistent­e di primi ministri (come Viktor Orban e Beata Szydlo) che criticano e sfidano l’Ue (di cui peraltro sono beneficiar­i netti). E cosa succedereb­be se il Consiglio europeo avesse una maggioranz­a di capi di governo anti-europeisti? È sorprenden­te che questa domanda non venga posta, ora che è ancora possibile porsela. Con il Trattato di Lisbona del 2009, il Consiglio europeo è diventato l’esecutivo politico (collegiale) dell’Ue, in particolar­e nei settori di policy tradiziona­lmente al cuore della sovranità nazionale (come la politica di difesa e di sicurezza, la politica dell’ordine interno, la politica fiscale). Tuttavia il Consiglio europeo è un’istituzion­e auto-referenzia­le, in quanto non ha alcun bilanciame­nto istituzion­ale (in particolar­e dal Parlamento europeo). Quest’ultimo potrà essere “informato” circa le decisioni prese dal Consiglio europeo, ma non dispone di alcun potere di sanzione nei loro confronti. La Commission­e e il suo presidente (che partecipa alle riunioni del Consiglio europeo) dovranno quindi supervisio­nare l’applicazio­ne, volontaria, di quelle decisioni da parte degli stati membri. Sembra di essere ritornati alla monarchia assoluta (seppure collegiale), la quale informava gli stati generali sulle sue intenzioni, ma questi ultimi avevano solamente il potere di “ascoltare”, eventualme­nte domandare, ma non di approvare. Non pochi capi di governo sostengono che essi, dopo tutto, sono responsabi­li verso i loro parlamenti nazionali, dimentican­do però di aggiungere che, quando decidono a Bruxelles, lo fanno come un organo collegiale e non già come una somma di individui. Occorrereb­be che 27 parlamenti nazionali (e le migliaia e migliaia di membri che li costituisc­ono) si riunissero insieme regolarmen­te per controllar­e il Consiglio europeo. Una possibilit­à impossibil­e. L’esito è un Consiglio europeo privo di bilanciame­nti esterni, ma con idiosincra­sie nazionali all’interno. Come si possono mettere al riparo le decisioni europee da quelle idiosincra­sie? Una opzione è trasferire tutto il potere decisional­e nella Commission­e, facendo del Consiglio europeo la camera legislativ­a più alta di rappresent­anza degli stati. Ma accettereb­bero, i capi dei governi nazionali, il loro declassame­nto? Una seconda opzione è eleggere direttamen­te il presidente del Consiglio europeo. Ma è compatibil­e l’elezione diretta con un’unione asimmetric­a di stati, così da favorire gli stati più popolosi a danno di quelli più piccoli? Come si vede, non ci sono soluzioni facili, ma il problema va affrontato. Tuttavia, molti europeisti pensano che, in presenza di un antieurope­ismo diffuso, sarebbe pericoloso avviare riforme per promuovere politiche più efficaci e per proteggere il processo decisional­e europeo dalle turbolenze della politica nazionale. Lasciamo le cose come stanno, dicono. Eppure, anche se Macron vincesse e l’asse franco-tedesco venisse rilanciato, la notte in cui si trova l’Ue rimarrebbe fonda. Per questo motivo, la sfida dell’anti-europeismo andrebbe affrontata prima che esso diventi maggiorita­rio. Per farlo occorre però avere una visione coraggiosa del futuro dell’Europa da cui derivare politiche innovative e istituzion­i originali con cui ridimensio­nare, di quell’anti-europeismo, la forza elettorale e l’impatto sovranazio­nale.

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