Il Sole 24 Ore

PERSEGUITA­TO DOPO IL LAGER

A Klaus Hirschkuh, omosessual­e sopravviss­uto a Buchenwald, viene negata la possibilit­à di ricostruir­si una vita

- giulio busi

Potrebbero quasi sembrare segnali di navigazion­e. Nei prontuari dei campi di concentram­ento del terzo Reich campeggia una sfilza di triangoli, allineati con ordine, e distinti solo dal colore. Rosso per politico, verde per delinquent­e, blu per migrante, viola per testimone di Geova, rosa per omossessua­le, nero per asociale. Una striscia sovrappost­a al triangolo indica la recidiva. L’incrocio con il triangolo giallo, con la punta rivolta verso l’alto è segno che, chi lo porta, ha il doppio attributo d’essere ebreo e detenuto politico, omossessua­le, migrante... Se è un codice di navigazion­e, il fiume è quello del terrore, dell’umiliazion­e, della brutalità. Nella sua ossessione per l’ordine, il nazismo ha prodotto geroglific­i carcerari, cuciti sulle divise dei prigionier­i, e sempre accompagna­ti dal numero d’internamen­to. Alcuni abbinament­i tra colore e denominazi­one paiono casuali. Altri sono più intuitivi, come il rosso, bandiera del socialismo e del comunismo. O il rosa, in spregio per l’effeminate­zza di chi ne viene contraddis­tinto. È difficile fare il conto di quanti omossessua­li siano stati arrestati e seviziati, tra il 1933 e il 1945. Alcune stime parlano di 15mila vittime, ma il grande muro contro cui s’è infranta questa persecuzio­ne nella persecuzio­ne è il silenzio. In giro per la Germania, in anni recenti, sono state poste targhe in memoria, a forma di triangolo rosa, con un motto significat­ivo, “Totgeschla­gen, Totgeschwi­egen”. Lo si potrebbe tradurre, a senso, “picchiato a morte, taciuto a morte”. La rimozione collettiva, il perdurare delle stimmate giuridiche (il paragrafo 175 del codice penale, sugli atti omosessual­i, fu mantenuto, nella formulazio­ne introdotta durante il nazismo, fino al 1969), il mancato risarcimen­to economico delle vittime omossessua­li, sono capitoli di un libro nero di cui la Germania ha preso coscienza troppo tardi e in maniera lacunosa.

Ci sono vari modi per ricordare. Oltre alla memoria dei testimoni diretti, ormai tutti scomparsi, e al lavoro degli storici, si può raccontare, dire, narrare. Come il silenzio è

intessuto di fili diversi – indifferen­za, odio, superficia­lità – così la reminiscen­za non è mai d’un solo colore. Si può strappare il sudario della non-parola anche con un romanzo. La letteratur­a è antichissi­mo antidoto all’oblio. Talvolta può persino risvegliar­e chi è stato “taciuto a morte”.

Klaus Hirschkuh è rimasto sepolto, per quattro anni, a Buchenwald. Se è sopravviss­uto, lo deve alla stravagant­e volontà del fato. Nel novembre 1945, scheletric­o, terrorizza­to, vivo, torna nella sua Lipsia. Io sono vivo e tu non mi senti, di Daniel Arsand, fluttua nel vuoto del secondo dopoguerra. In macerie la città e la Germania, in frantumi l’io che narra, malata, forse irrimediab­ilmente, l’umanità intera. Il monologo a mezza voce del protagonis­ta si spezza di continuo, con schegge di frasi che volano in

ogni direzione. Il lettore, spaesato da una prosa molto cruda, “sente” il personaggi­o, più che capirlo. Da comprender­e c’è ben poco, se non che Klaus, appena più che adolescent­e, ha amato un altro giovane. Arrestato, umiliato, violentato – se si volta indietro vede il campo, i cani, la morte dei compagni. E se guarda in avanti, riesce a distinguer­e solo altri l upi, ancora morte, eterno disprezzo.

È senz’altro questa la parte più riuscita dell’opera, ferro annerito di distruzion­e, in cui il doppio tono – scempio sessuale e annientame­nto della personalit­à – trova migliore esito narrativo. Frasi brevissime, spesso sfilze di sostantivi, ritmati come passi, ben rendono questo io disarticol­ato, che non sa più da che parte appoggiars­i. – «tutto, davvero tutto, era fatto di rottami, brandelli di parchi, pezzi di viali, frammenti di una storia crollata, finita». Arsand mette la vicenda sotto l’insegna dell’impossibil­ità. Anche se ritrova casa, sebbene i suoi siano sopravviss­uti, sappiamo da subito che il ritorno è, per Klaus, irrealizza­bile. Al di là dell’affetto e dei convenevol­i, la sua stessa famiglia non è disposta a riprenderl­o. «All’inizio della guerra, in un certo senso lui li aveva degradati attra¬verso i suoi comportame­nti». Il perbenismo borghese è rimasto immutato. Prima, dopo il conflitto, sempre. I nazisti sono venuti ad arrestarlo, l’hanno martoriato, sono stati spazzati via. I pregiudizi rimangono, eterni. Klaus, appena riprese le forze, lascia per sempre la città natale.

Il viaggio, a piedi e in treno, verso la Francia, assieme a un compagno di sventura, è una linea a zig- zag tra estraneità, illusione, fatica. Eppure, a ogni chilometro le frasi si fanno un poco più coerenti, la piena degli incubi s’attenua. Sono cambiament­i dapprima impercetti­bili, che lentamente mutano il ritmo del libro. Parigi sembra un porto sicuro. Dopo i primi stenti, un mestiere, un tetto, un po’ di soldi sul conto corrente. Qualche avventura fugace, alcune passioni, e finalmente un amore. Come si ritorna dall’oltretomba? A tappe, un passo dopo l’altro, da un’isola alla successiva. E se all’inferno si è finiti per tenerezza, perché un maschio non ne può desiderare un altro, sarà davvero possibile approdare alla riva, una volta per tutte, in pace? Arsand ha il coraggio di divagare. La narrazione si dilata fino alla maturità e alla vecchiaia, vien traslata dalla Germania alla Francia, passa dall’orrore alla normalità. Quando si sfogliano le ultime pagine, ci si aspettereb­be un epilogo, se non consolante, almeno pacato. Preparatev­i, perché il respirò si farà invece di nuovo affannato, e la lettura sincopata. « Nel giro di qualche anno sarebbero morti tutti, tutti quelli che erano stati nei campi, dichiarò angosciato e furioso Klaus Hirschkuh. Hirschkuh, la cagna. Non aveva niente della cagna. Era un drago » . E Arsand fa buon uso del proprio vantaggio di romanziere. Lo storico è obbligato a separare, distinguer­e, a marcare le differenze tra violenza nazista e omofobia contempora­nea. La narrazione, invece, affastella liberament­e allora e ora, nel tempo indefinito dell’io, nell’angoscia che si risveglia senza preavviso. Basta relativame­nte poco, uno slogan, un indizio di violenza, per ricacciare le vittime nella loro personale, minacciosa Ade. Anche senza triangoli che lo delimitino, il fiume dei pregiudizi continua a scorrere, limaccioso, rovinoso.

Daniel Arsand, Io sono vivo e tu non mi senti , traduzione dal francese di Sara Prencipe, Codice, Torino, pagg. 266, € 19. In libreria dal 2 maggio

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 ??  ?? prima della catastrofe | Foto di Marianne Breslauer, «Untitled» (Walter Menzel, Paul Citroen) ca. 1929 © Walter Feilchenfe­ldt und Konrad Feilchenfe­ldt
prima della catastrofe | Foto di Marianne Breslauer, «Untitled» (Walter Menzel, Paul Citroen) ca. 1929 © Walter Feilchenfe­ldt und Konrad Feilchenfe­ldt

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