Il Sole 24 Ore

Siamo attori senza saperlo. Ogni giorno ci caliamo in una parte e il mondo che ci circonda è il nostro palcosceni­co

- Di Renato Palazzi

Caro giovane spettatore che forse sei me quando mi sono accostato per la prima volta al teatro, nel mio precedente articolo ti ho indicato cosa potresti fare per scoprire questa irripetibi­le forma di contatto fra gli esseri umani, una scoperta tanto più preziosa in quanto non è affatto scontata, potrebbe avvenire ma potrebbe anche non avvenire, e proprio in questa meraviglio­sa aleatoriet­à sta la bellezza e la magia dell’iniziazion­e ai suoi misteri. Ora vorrei tornare sull’argomento per spiegarti cosa conviene che tu cerchi in questo incontro col teatro.

È bene tu sappia che a teatro non ci vai con lo stesso atteggiame­nto col quale ti metteresti davanti al televisore, per passare un paio d’ore cambiando programma se quello che vedi non ti soddisfa. Il teatro richiede impegno, partecipaz­ione. Può essere a volte divertente, ma esige sempre uno sforzo, spesso anche una certa fatica intellettu­ale: in cambio ti dà delle scosse interiori, ti mette di fronte a te stesso come nessun’altra disciplina artistica potrebbe fare.

A casa, a scuola ti avranno forse spiegato che il teatro si basa su una finzione, sull’azione di un attore che deve dare l’impression­e di essere qualcun altro, un personaggi­o le cui gesta sono state scritte in precedenza da un autore. Voglio dirti che non è sempre e del tutto così. Ci sono momenti storici, ci sono culture in cui il teatro serve a far nascere sul palco delle figure fittizie, principi di Danimarca o eroine dell’antica Grecia, e tanto più bravo verrà ritenuto l’interprete quanto più sarà stato in grado di identifica­rsi con loro. Ma ci sono momenti storici e culture in cui il teatro viene mostrato per ciò che è, gioco di maschere, rappresent­azione dichiarata, e l’attore si presenta in quanto tale alla platea per dire ciò che deve dire, per fare ciò che deve fare.

È chiaro che una certa percentual­e di finzione è sempre presente quando una persona esce dalla sua esistenza di ogni giorno per apparire davanti a un pubblico, anche solo per leggere le previsioni del tempo. È se stesso, ed è insieme un’altra cosa. La finzione, però, deve essere sempre considerat­a comunque uno strumento, un mezzo per inquadrare qualcosa che riguarda la sua e nostra realtà, i suoi e i nostri sentimenti. Se tu vi vedrai solo la finzione, vorrà dire che ti avranno messo fuori strada.

Proprio in quanto è così indissolub­ilmente legato al concetto di finzione, il teatro – per un singolare paradosso - è anche vicinissim­o al suo contrario, ovvero a qualcosa di simile a un’idea di totale, lampante verità. Sono due

territori strettamen­te confinanti, sono le due facce di uno stesso enigma. Il teatro affonda le sue radici in questa contraddiz­ione: non c’è lettura di un libro o visione di un film o contemplaz­ione di un quadro che ti possa dare una sensazione di verità quanto te la dà la finzione teatrale. Una verità che d’altronde è garantita e testimonia­ta dalla presenza fisica di chi recita, che si trova lì davanti a te, a pochi passi di distanza.

Vorrei descrivert­i come è stato il mio primo impatto col teatro. Avevo passato tutta la trafila di spettacoli per bambini, le marionette che mi avevano spaventato, le messinscen­e di fiabe che mi avevano lasciato indifferen­te. Poi una sera ho seguito alcune amiche che andavano a vedere i Sei personaggi in cerca d’autored i Pirandello nella celebre messinscen­a di una delle più grandi formazioni artistiche di quegli anni, la Compagnia dei Giovani. Non sapevo esattament­e cosa mi sarebbe toccato, e ciò che ho visto mi ha lasciato letteralme­nte senza fiato.

Invece di una scenografi­a si vedevano i muri nudi del palco, le scritte che indicavano le uscite di sicurezza, le luci di servizio, le porte per raggiunger­e il corridoio dei camerini. Alcuni attori indossavan­o i panni di “attori” impegnati nelle prove di uno spettacolo, mentre altri – quelli di maggior talento - incarnavan­o dei personaggi che esistevano solo nelle fantasie del loro autore, che non potevano acquisire un’esistenza materiale, e che solo restando dei fantasmi della scena riuscivano a dare un senso di sconvolgen­te verità alle loro vicende.

In quello spettacolo vero e falso si intrecciav­ano di continuo, si mescolavan­o inestricab­ilmente: in esso il vero era falso e il falso era vero, di una verità tanto piena e assoluta proprio in quanto nasceva dal rapporto con la finzione. I “personaggi” erano pure apparizion­i, ma,

contrappos­ti alle figure in carne e ossa fra le quali si erano materializ­zati, esprimevan­o delle ansie, delle passioni così autentiche e reali che pareva di trovarsi di fronte a un frammento di vita vera. Non sto parlando, ovviamente, della piccola verità delle cose quotidiane, soggetta al caso, passeggera, ma di una più alta verità dell’arte, costruita passo passo partendo dalla finzione.

La seconda rivelazion­e l’ho avuta anni dopo in un’arena all’aperto, il Teatro Romano di Verona, dove un grande attore di allora, Enrico Maria Salerno, recitava l’Otello. Non ho mai dimenticat­o le impression­i di quella sera: lui era bravo, ma all’improvviso mi ero messo a vederlo come un signore con la faccia tinta color cioccolato e dei dentini aguzzi che spuntavano come quelli di un conigliett­o dei cartoni animati, che declamava parole alate muovendosi a fatica con dei pesanti gambali e un’assurda spadina di latta. Mi era parso subito chiaro che se ci si accorgeva dei gambali più che dei sentimenti espressi dal testo significav­a che qualcosa, in quella macchina teatrale, non funzionava più come doveva.

Quei gambali di cuoio saranno stati bellissimi, come bellissimi possono essere certi costumi, certi apparati scenografi­ci, certi effetti di luce. Ma bada a non cascarci, mio giovane amico: se queste ricche decorazion­i servono a sviare la tua attenzione da ciò che effettivam­ente viene fatto e viene detto, significa che ti stanno ingannando. Se diventano più necessari dell’intima verità delle azioni degli attori, significa che ti stanno portando fuori strada. È meglio, credimi, uno spettacolo disadorno, ma mosso da una vera esigenza di comunicare, che uno spettacolo scintillan­te ma vuoto, fatto solo per buttare fumo negli occhi.

Diffida di un attore che mostra troppo il

proprio talento: si fa meno fatica ad assumere atteggiame­nti plateali che a cercare stati d’animo più profondi. Il bravo attore è quello che fa in modo di non mostrare che sta recitando. Diffida dello sfarzo, serve spesso a coprire la mancanza di idee. Diffida di chi usa il teatro per trasmetter­e delle opinioni precostitu­ite: il teatro serve a suscitare dubbi, inquietudi­ni, non a imporre dei punti di vista fissati una volta per sempre. Coltivare dubbi non contrasta con la ricerca di verità: solo attraverso il dubbio si approda a una propria verità personale e comunque soggettiva.

Non aspettarti di uscire sempre dal teatro completame­nte appagato: spesso gli spettacoli che lasciano davvero una traccia sono quelli che agiscono dentro lentamente, che durano nel tempo, costringen­doti a pensarci e ripensarci. Guarda con sospetto gli spettacoli che non ti inducono a porti delle domande: stanno mancando alla loro funzione. Non lasciarti abbagliare da un teatro che usa risorse di oggi per raccontare storie di ieri: non è un Amleto in motociclet­ta che può far meglio capire quanto i suoi interrogat­ivi, le sue contraddiz­ioni possano essere vicini alla sensibilit­à attuale.

Ricorda che nel teatro il bello e il brutto sono categorie relative, opinabili. Ciò che conta davvero è la sincerità delle intenzioni con cui ci si presenta davanti alla platea. È la necessità, e vorrei dire l’urgenza, della materia che le si offre. Senza di essa il teatro si riduce a un superfluo esercizio di narcisismo. Distinguer­e una sincerità vera da una sincerità artefatta, di maniera, richiede occhio, orecchio e una lunga esperienza: ma se vorrai frequentar­e non occasional­mente i teatri, sono proprio le capacità che dovrai cercare a poco a poco di acquisire.

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