Storico di razza, comunista disilluso
Molto si è scritto e dibattuto fino ad anni recenti sulla controversa figura di Delio Cantimori, grande storico della vita religiosa cinquecentesca, con particolare riferimento al radicalismo degli esuli italiani in Svizzera e poi nell’Europa orientale, degli utopisti e riformatori italiani tra Sette e Ottocento, infaticabile recensore e promotore di discussioni storiografiche, con lo sguardo volto soprattutto verso il mondo tedesco, attivissimo consulente editoriale (specie per Einaudi). Discussioni sempre informatissime e talvolta assai polemiche, con il suo bisogno «quasi spietato» – come ha scritto Giovanni Miccoli – di fare chiarezza, di guardare a fondo e distinguere, di specificare e articolare le sue analisi e i suoi giudizi in pagine spesso ardue e talvolta tortuose. E se ne è scritto e dibattuto in relazione sia all’evoluzione della sua riflessione intellettuale (quella che egli stesso definì come un passaggio dalla filosofia alla storia) e dei fondamentali contributi da lui dati agli studi, sia – e soprattutto – al suo ruolo di intellettuale militante, passato dal fascismo d’anteguerra all’iscrizione al Partito comunista italiano del dopoguerra, esente peraltro da ogni pur lontano sospetto di opportunismo politico, fino ai fatti d’Ungheria del ’56, quando non rinnovò più la tessera. Allora poco più che cinquantenne (era nato nel 1904), visse con amaro disincanto gli ultimi anni di vita, ormai certo di essersi gravemente sbagliato – come scriveva a Gastone Manacorda il 1° giugno 1957 – «nell’aver creduto di capire qualcosa di politica contemporanea».
C’era, in quell’apparente rovesciamento di posizioni, non solo l’esperienza della guerra e dell’occupazione tedesca, ma anche una sostanziale continuità negli orientamenti politici di un romagnolo nutrito in gioventù di cultura mazziniana, di un intellettuale sempre inquieto e sempre bisognoso di punti di riferimento, che tanto nell’una quanto nell’altra militanza portava il bisogno di dare ordine al suo inquieto mondo interiore, di sorvegliare le sue molteplici curiosità, di sottoporre a verifiche empiriche il suo interesse per i concetti generali, sentiti come indispensabili e al tempo stesso «deleteri». Di qui il suo costante impegnarsi per tenere distinte storiografia e politica (senza mai riuscirci fino in fondo) e la sua diffidenza per le evocazioni del passato basate su suggestioni letterarie, su grandi affreschi scintillanti, su generalizzazioni più o meno arbitrarie, su metodi astratti, per insistere invece sul lavoro concreto e rinviare costantemente «alla bibliografia, alla erudizione, alla filologia», al minuzioso accertamento storico dei fatti in quanto «unica cosa sicura! = neutra». Di qui, infine, l’intenzione sempre ribadita di «ritirarsi nei propri studi» quali «unico rimedio» per «finire pulitamente una vita disordinata e polverosa», come ebbe a scrivere dopo la crisi ungherese, elencando i suoi «grandi sba- gli», le sue stesse «ombre del passato», tra cui l’illusione che il fascismo «avrebbe fatto la rivoluzione repubblicana, sindacale, nazionale», l’«aver ceduto sempre al richiamo della politica, credendo di capirci qualcosa» e di averla affrontata con uno «sterile moralismo russo-mazziniano», il «saltare tra i comunisti» e iscriversi al Pci, l’abbandonare i suoi studi per tradurre Marx.
Il cinquantenario della sua morte nel 2016 è invece trascorso in sordina, con la piccola eccezione di una mostra di pochissimi giorni (2-10 dicembre), basata sui documenti conservati nell’Archivio Cantimori custodito presso la Scuola Normale Superiore, dove fu studente negli anni venti e poi professore a partire dal 1940, chiamato a insegnarvi da Giovanni Gentile. Il catalogo è anche un invito a riprendere e studiare quelle carte per approfondire la conoscenza di uno storico che, al di là delle polemiche ideologiche, ha lasciato un segno non trascurabile sulla vita culturale dei primi due decenni dell’Italia postbellica. Particolarmente interessanti sono alcune lettere qui edite per la prima volta a storici ed editori, o i documenti che investono la sua collaborazione alla Rai, o ancora quelli sui rapporti con la moglie Emma Mezzomonti, compagna di vita e di lavoro nella traduzione di Marx. Brevi saggi tematici incentrati sulla presentazione dei documenti si affiancano a materiale iconografico, fotografie, frontespizi, gustosi disegni autografi (forse si sarebbe potuta aggiungere anche qualcuna delle poesiole satiriche che a volte egli scriveva e inseriva qua e là tra le pagine dei libri).
Oltre alla sua biblioteca e alle sue carte, a Pisa Cantimori lasciò senza dubbio l’eredità più importante della sua tormentata vita di storico e di intellettuale, a prescindere dalle sue opere: nelle lezioni, nei seminari e ancor più nel quotidiano colloquio con gli «scolari», sui quali il suo sterminato sapere e le sue inquietudini culturali esercitarono grande fascino, tale da imprimere su molti di loro un segno indelebile di rigore e curiosità, di apertura a orizzonti europei, ma sempre portando con sé l’insoddisfazione che nasce dagli stessi risultati conseguiti, tanto più validi quanto più capaci di suggerire nuovi problemi e nuove ricerche. Alcuni ne hanno proseguito l’insegnamento nelle aule pisane, continuando – come altri diventati professori in altre Università – a trasmettere agli studenti temi, problemi e metodi del suo magistero, in un dialogo sempre aperto con la migliore storiografia internazionale. Una tradizione che è diventata un patrimonio della Scuola Normale, un fattore importante del suo prestigio nell’ambito degli studi storici, ora affidato alla tutela di un nuovo Direttore, impegnato a ricondurre la gloriosa istituzione pisana all’altezza dei suoi momenti migliori.
Delio Cantimori ( 1904- 1966), Libri, documenti e immagini dai fondi della Scuola Normale Superiore , a cura di Daniele Menozzi e Francesco Torchiani, Edizioni della Normale, Pisa, pagg. 127, € 15