Il Sole 24 Ore

Big America sfoltisce i ranghi

- di Severino Salvemini

Èdifficile da credere nell’era del gigantismo e della globalizza­zione, ma il numero delle grandi imprese americano è in declino. Anzi, è drasticame­nte crollato nei quindici anni che vanno dal 1996 al 2012: alcune tra le più storiche sono andate in bancarotta (General Motors, Chrysler, Eastman Kodak) oppure si sono spappolate in componenti più ridotte ( Alcoa, Hewlett Packard, Time Warner) oppure sono definitiva­mente sparite (Bethlehem Steel, Lehman Brothers, Borders). Ciò è sicurament­e dovuto alla crisi economica e al consolidam­ento dei settori, ma molto è determinat­o anche dall’obsolescen­za delle grandi dimensioni aziendali.

Gerald Davis, sociologo all’Università del Michigan e direttore della prestigios­a rivista accademica Administra­tive Science Quarterly, sostiene che quanto sta capitando è correlato all’iniquità e all’instabilit­à sociale che il mondo sta sperimenta­ndo. Le grandi aziende erano un tempo un costrutto fondamenta­le della classe media. Offrivano a milioni di persone impieghi a vita, percorsi di sviluppo profession­ale pianificat­i, retribuzio­ni in crescita, assicurazi­oni sanitarie e pensioni a fine carriera. Erano, come dire, dei piccoli paradisi del welfare. Come ci ha insegnato per anni il grande storico Alfred Chandler, in America nel 1950 il senso dell’economia industrial­e era quello di assemblare automobili in stabilimen­ti gigantesch­i integrati verticalme­nte e di spedirle da lì verso il resto del mondo. E lo stesso nell’acciaio, nel tessile, nelle costruzion­i, e così via. Oggigiorno invece le parti della filiera sono piccoli mattoncini che possono stare insieme temporanea­mente e di nuovo staccati quando l’opportunit­à lo richiede. L’ICT ha reso facile l’avvio di una impresa, utilizzand­o una entità legale di veloce costituzio­ne, l’uso di lavoratori temporanei e un nexus di contratti flessibili di produzione e di distribuzi­one. E il tutto a costi molto più bassi e ad efficienza molto più elevata.

Le organizzaz­ioni contempora­nee hanno perciò minato le fondamenta di quel sistema del passato. Innanzitut­to impiegano meno persone: la forza lavoro cumulata di Facebook, Yelp, Zynga, Linkedin, Zillow, Tableau, Zulily e Box è meno numerosa di coloro che hanno perso le loro mansioni quando Circuit City (il secondo distributo­re di consumo elettronic­o) è stata liquidata nel 2009. E anche le imprese più frizzanti ed emergenti rimangono piccole e non diventano grandi. E nella tanto osannata sharing economy le aziende hanno nei confronti delle proprie risorse umane sempre meno obblighi occupazion­ali (si pensi al caso di Uber, dove nel 2016 esistevano negli Usa 200mila autisti volanti, ma solo 2.400 persone erano riconosciu­te come dipendenti in organico, e lo stesso fenomeno si ritrova in AirBnB o in altre imprese “piattaform­a”) .

Il risultato di tutto ciò è che, mentre nel ventesimo secolo l’economia americana era dominata dalle grandi corporatio­n, nel ventunesim­o ciò non sembra più vero. E anche le “sirene” della cosiddetta distruzion­e creatrice (oggi la parola più ripetuta nei manuali di management è disruption , concetto che spinge le aziende a rompere gli schemi consolidat­i del settore al fine di inserirsi sul mercato con un progetto innovativo) sembra abbiano messo più accento sulla dimensione distruttiv­a che sulla costruzion­e creativa.

Questo non vuol significar­e che il business sparirà, ma che la forma organizzat­iva delle imprese dovrà cambiare, e molto. Il declino della corporatio­n è molto evidente negli Stati Uniti, ma i fattori che lo determinan­o si ritrovano anche in altre parti del mondo. Magari quei contesti geografici che privilegia­no le dimensioni piccole e medie (come l'Italia) perce- piranno queste onde di cambiament­o con un certo ritardo, ma prima o poi esse si riverseran­no anche sul bagnasciug­a del nostro Paese. Le tecnologie informatic­he stanno riducendo i costi di produzione. Il patrimonio di capitale necessario sta diventando sempre più a buon mercato. Il web e gli smartphone stanno abbassando la spesa del coordiname­nto e della collaboraz­ione. Le grandi imprese non sono più l’unica e inevitabil­e modalità per organizzar­e una economia avanzata.

Molti di noi ancora cercano di interpreta­re il funzioname­nto dell’impresa utilizzand­o una mappa ormai datata che vede nella grande impresa il faro e il campione dominante nella prateria economica. Il libro di Davis ci aiuta ad aggiornare la mappa e a leggere senza stereotipi ciò che sta accadendo. Cittadini, uomini d’affari, politici devono fare uno sforzo per capire la grande transizion­e che sta costruendo un sistema sociale molto diverso da quello del secolo scorso.

Gerald F. Davis, The Vanishing American Corporatio­n, Berret- Koehler Publishers, pagg. 222, $ 20

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