I bronzi di Damien Hirst
Un t e s oro n a u f r a g a con l a n ave che lo porta. L’artista inglese lo ritrova in fondo al mare, lo recupera e lo espone. E ognu no è libero di credere che questa stor ia sia vera
Mari dell’Africa, la collezione di un ricchissimo liberto dell’impero romano, un tesoro di sculture e di oggetti provenienti dalle più raffinate culture antiche, naufraga insieme al bastimento che la porta. La si ritrova in fondo al mare nel 2008, se ne portano in superficie i tesori, in parte li si restaura e in parte no. Damien Hirst, che un tempo strappava al male squali e pesci da mettere in formalina, se ne appropria e la espone a Palazzo Grassi e Punta della Dogana, prima mostra personale a dipanarsi in entrambe le sedi veneziane della Fondation Pinault. Una scritta sull’architrave dell’ingresso gioca con le parole «giace» e «bugie», che in inglese hanno la stessa grafia, collegandole alla parola verità. Se ci vuoi credere, questa vicenda è vera. La descrivono le audio guide con precisione storicista, la ribadisce uno stile espositivo che ricorda quello dei musei archeologici, lo attesta il video in cui le opere vengono estratte dall’acqua una a una. La verità è basata sul credere - dice l’artista inglese ( Bristol 1965) - in almeno due sensi: sta a te credere cosa ritenere vero, ma anche rendere reali i tuoi desideri.
Questa seconda parte del gioco, a Hirst , è riuscita benissimo, dato che in cinquant’anni ha saputo percorre la strada che dai sobborghi porta al centro della scena, alla ricchezza, a un’autobiografia, a una china discendente e poi di nuovo verso la ribalta, sempre giocando sui due piani della sua stessa creatività, da una parte, e dall’altra di un fiuto imprenditoriale che lo ha condotto dall’organizzazione della prima mostra degli Young British Artists, Freeze, alla creazione in tandem con Jay Joplin della fortissima galleria White Cube, all’invenzione di un ristorante, Pharmacy, i cui arredi mise all’asta proprio un attimo prima che scoppiasse la crisi dell’Occidente. Anche la doppia mostra veneziana è destinata a finire tutta in asta, dopo una esposizione allo stupore e alle prevedibili critiche che ne avrà alzato le quotazioni.
Che però noi si creda che le sculture esposte vengano veramente da quel liberto, da quel naviglio, da quel tempo e dalle storie che vorrebbero testimoniare, è a dir poco
| Damien Hirst, «Demon with Bowl (Exhibition Enlargement)», collocato nell’atrio di Palazzo Grassi a Venezia
difficile: uno dei vantaggi della post- verità diffusasi via internet è che ci spinge verso un approccio dubbioso. Qui, se già corpi di donna un po’ troppo allungati, moderni, vicini a quelli di modelle in passerella ci fanno scuotere la testa, un grande Topolino dentro a un gruppo scultoreo ci convince che siamo di fronte a una colossale falsità. Certo molto concreta, fatta com’è di bronzo fuso a cera persa, argento, pietre preziose, oggetti che variano dimensione a mantengono una materialità esasperata e tangibile, dai diciotto metri d’altezza del primo incontro nell’atrio di Palazzo Grassi al piccolissimo Mercurio che chiude la rassegna. Sono dieci anni di lavoro, quelli in cui credevamo che l’artista fosse stato eclissato da altre mode. In effetti probabilmente ha voluto lavorare in sordina, sapendo che il ciclo di vita di un prodotto – e come tale si propone – può risalire ma non restare sempre nel suo punto più alto. Chi ha letto o sentito le sue interviste sa con quanta consapevolezza si sia sempre mosso nel tempo, prevedendo la sua fortuna e le sue cadute, come il fatto che il suo primo collezionista, Charles Saatchi, lo avrebbe tradito presto. Non volendo essere vittima del mercato, Hirst governa da solo il suo denaro. Investe nei materiali, che si tratti dei diamanti da incastonare nel suo famoso teschio, o dell’enormità di lavoro che vediamo a Venezia: difficile passeggiare per le sale senza pensare a quanti professionisti della scultura, della fusione, del trasporto, della ricostruzione in situ sono stati
coinvolti; la curatrice della mostra, Elena Geuna, fedelissima consulente di Pinault, è solo la punta di un iceberg che possiamo immaginare come un’industria.
Bene, ma cosa ci vuole dire l’ex ragazzaccio con questa prova di forza, non di rado sconfinante nel kitsch ma a tratti anche un po’ mistica? Alcune cose che ci racconta da quando, sempre a Venezia nel 1993, portò una mucca e un vitellino in formalina nella sezione Aperto della Biennale, segati a metà in modo da mettere in evidenza anche gli organi interni: c’è la morte, e per quanto risulti molto difficile concepirla o sopportarne la vista, niente le sfugge. Poiché però noi siamo consapevoli di avere un tempo definito, meglio spenderlo in grande: realizzare ambizioni piccole o enormi costa la stessa fatica, basta sapere uscire dalla confort zone e accettare – anzi spesso cercare deliberatamente – uno scandalo che con il tempo possa diventare un coro d’approvazione. Il gusto kitsch è un altro punto saliente: questa mostra veramente unbelievable è piena di draghi, divinità, magie che sembrano uscite dall’immaginario di una persona poco colta, o piuttosto dalla cultura male assorbita e che mette tutto quello che sa in un calderone indigesto. Del resto questa bulimia è sia nelle premesse della mostra – i liberti potevano diventare ricchissimi ma non avevano generazioni di raffinatezze alle spalle – sia nel presente collettivo, quando il web è una pentola in cui epoche, stili e pensieri si mescolano senza posa. Ma il fenomeno del kit-
sch dilagante, cultura urbana e sradicata per eccellenza, basata sulle apparenze e su di una seduzione da vetrina, era già stato condannato da Clement Greenberg e abbracciato dai primi protagonisti del pop, dove la magica parolina sta a indicare il gusto di chi si forma sulle pagine di pubblicità e davanti a uno schermo, un tempo quello del cinema, poi quello televisivo e ora quello degli smart devices. Come Andy Warhol e Jeff Koons, Damien Hirst non critica ma asseconda l’attitudine della maggioranza.
Un altro punto saliente è la ribellione al virtuale e su di un doppio registro: il primo sta in una domanda: l’arte può ancora gareggiare con la spettacolarità della cronaca? Il secondo pare un’affermazione: tutta questa materia, preziosa o meno, profusa davanti a noi quasi invitandoci a sentirne il peso sul nostro corpo e a confrontarla con l’acqua che si vede da ogni sala espositiva, sembra implorarci di considerare come il mondo sia ancora fatto soprattutto di corpi. Che si tratti di vibrazioni consolidate o di moti subatomici non importa: nulla può sottrarci alla carie, visto che si rovinano anche opere pensate per l’eternità. Noi possiamo al massimo conservare l’integrità dei nostri desideri, se li vogliamo e sappiamo conservare.
Damien Hirst. The Wreck of the Unbelievable . Venezia Palazzo Grassi e Punta della Dogana fino al 3 dicembre