Lear passato e ve cchio
Nel Lear di Edward Bond non resta, probabilmente, una sola parola del dramma shakespeariano. Anche la trama è molto diversa rispetto al modello originale: non c’è lo spunto iniziale della divisione del regno, manca del tutto la vicenda parallela di Gloucester con la sua incapacità di distinguere il figlio leale da quello traditore. Probabilmente nella storia del vecchio re obnubilato dal potere, che arriva a cogliere la verità solo attraverso dolori e traversie, e quando è ormai troppo tardi, a Bond interessava solo la presa di coscienza finale, il vano sforzo di riconoscere e correggere i propri errori. In questa riscrittura del ’71 Lear è un folle autocrate ossessionato dall’idea di costruire un metaforico muro per tenere lontani i nemici. A questa impresa, che nei suoi piani dovrebbe garantire la sicurezza dello Stato per tutti i tempi a venire, è pronto a sacrificare vite innocenti, a calpestare diritti, a sopprimere con le sue mani i sospetti disertori che di giorno lavorano al muro e di notte lo smontano di nascosto. Le figlie, viceversa, hanno una strategia opposta, si sono già accordate per sposare i regnanti dei territori vicini, unificando così i loro domini, e pretendono l’abbattimento del muro. Questo conflitto genera violenze anche più truci di quelle descritte da Shakespeare. Le figlie fanno guerra al padre, lo depongono, lo imprigionano, ma verranno a loro volta sopraffatte da una rivolta. Il re, in fuga, trova rifugio nella casa di un contadino a cui si legherà come a un figlio: ma l’uomo verrà ucciso per causa sua, e la moglie incinta, Cordelia, stuprata, si metterà a capo dei ribelli, che dopo avere vinto provvederanno subito a ripristinare il muro. Accecato dai nuovi tiranni, divenuto un predicatore delle giuste cause Lear si farà sparare mentre, armato di piccone, tenterà da solo di demolirlo.
A quasi mezzo secolo dalla sua stesura, il testo di Bond si presenta come una dignitosa testimonianza del passato, frutto di un vigoroso artigianato drammaturgico dell’altro ieri, quando trasposizioni di questo tipo risultavano in sé graffianti: vi si colgono i chiari segni di un’epoca in cui la scena inglese provava a conciliare Brecht e Artaud, l’impegno didascalico e il teatro della crudeltà. Qui di crudeltà ce n’è fin troppa, ma ormai cristallizzata, esibita senza altro scopo se non quello di ribadire la ferocia di personaggi privi di qualunque sentimento che non sia la mera smania di comandare. Non capisco perché la regista Lisa Ferlazzo Natoli abbia scelto un’opera così palesemente invecchiata: per via del muro, coi suoi risvolti attuali? Non sembra un motivo sufficiente. Comunque devo dire che lo spettacolo, co-prodotto dal Teatro di Roma, dal Teatro dell’Elfo e Lacasadargilla, non mi è piaciuto. Non mi sono piaciute certe soluzioni formali, la scenografia di Luca Brinchi, Fabiana Di Marco e Daniele Spanò, una struttura di tubi metallici, legno e tela che dovrebbe suggerire un cantiere, ma fa un effetto sciatto, le luci lampeggianti, i suoni che vorrebbero essere onirici.
È interessante l’intuizione di evocare un mondo lividamente in bianco e nero, dove gli unici tocchi di colore sono le macchie di sangue sugli abiti, sui volti, sulle mani che Lear affonda nel cadavere di una delle figlie: ma anche tutto questo cavarsi gli occhi e torturarsi, alla lunga, sa di già visto. Gli attori, nel complesso, sono bravi. Alcuni ci mettono qualcosa di più, come Emiliano Masala o Maria Pilar Perez Aspa. De Capitani, nei panni di Lear, sfoggia quella grande personalità interpretativa che ha ormai acquisito, ben altra cosa rispetto allo smunto Otello di qualche mese fa. Ma è, appunto, un’esibizione tutta da attore, a cui manca a mio avviso quella vibrante verità che sa toccare negli spettacoli da lui firmati. La questione va forse oltre la singola proposta: il Teatro dell’Elfo è una realtà di rilievo nazionale, nel pieno della maturità artistica e produttiva, ed è logico che debba aprirsi ad altri apporti registici. Ma la contaminazione fra la sua storia, la sua fisionomia creativa ed esperienze con radici diverse appare oggi piuttosto problematica. Lear di Edward Bond. Regia di Lisa Ferlazzo Natoli. Milano, Teatro Elfo Puccini, fino al 7 maggio