Il Sole 24 Ore

L’Italia e l’euro, la storia non fa retromarci­a

- Di Barry Eichengree­n

Ci sono ragioni valide per sostenere che la creazione dell’euro e la partecipaz­ione dell’Italia siano stati due errori storici. Il problema, come sappiamo ora, è che un’unione monetaria senza unione bancaria e unione politica non funziona. O almeno non funziona in modo soddisface­nte per tutti.

Il primo decennio dell’euro ha visto un’imponente spostament­o di capitali dall’Europa settentrio­nale, dove i tassi di interesse erano bassi, all’Europa meridional­e, dov’erano più alti.

Non c’era un’autorità di vigilanza unica, e più in generale non c’era nessuna unione bancaria che tenesse conto dell’impatto che avrebbe avuto la regolament­azione lasca delle banche francesi e tedesche su questi flussi, e come ne sarebbero stati influenzat­i i Paesi beneficiar­i.

I flussi che ne sono risultati hanno fatto scendere i tassi di interesse in tutta l’Europa meridional­e. La possibilit­à di finanziare i consumi a buon mercato ha creato un falso senso di prosperità, che ha incoraggia­to i Paesi beneficiar­i a rinviare le riforme e ha consentito decisioni di investimen­to avventate, che ora gravano sulle istituzion­i finanziari­e che le hanno intraprese.

Il risultato è che l’Italia si trova oberata da un sistema bancario debole, una crescita anemica e vincoli sulla ricapitali­zzazione delle banche ispirati dalla Germania. Sempre più italiani hanno la percezione che il loro Paese sia bloccato e che serva qualcosa di radicale per «sbloccarlo».

Ma riconoscer­e che adottare l’euro sia stato un errore non significa che la linea d’azione migliore sia abbandonar­lo ora. La storia non ha la retromarci­a. Uscire dall’euro non risolvereb­be i problemi dell’Italia.

I vincoli alla crescita sono le restrizion­i dei mercati dei prodotti e un sistema fiscale inefficien­te, che deprime la produttivi­tà e scoraggia gli investimen­ti. I lettori italiani non hanno certo bisogno della lezioncina di un economista straniero per sapere che queste situazioni vanno cambiate.

L’interrogat­ivo è se abbandonar­e l’euro accelerere­bbe queste riforme. Chi afferma di sì sostiene che reintroduc­endo la lira e svalutando­la le esportazio­ni e la crescita del Belpaese riceverebb­ero una spinta. Dal momento che la torta si ingrandire­bbe, gli interessi costituiti sarebbero meno determinat­i a difendere la loro fetta immutabile e più inclini ad accettare riforme che accrescono la flessibili­tà.

Però non esistono dati che indichino in modo univoco che i Paesi fanno più riforme nei periodi in cui l’economia tira. E anche il confronto tra l’esperienza italiana negli anni relativame­nte positivi prima del 2007 e gli anni più difficili successivi a quella data non induce a pensare che più prosperità renda possibile fare più riforme. Anzi, induce a temere che la reintroduz­ione della lira sarebbe visto come una sorta di elisir magico che rende inutili ulteriori riforme.

Inoltre, abbandonar­e l’euro avrebbe due costi seri. Il primo è che scatenereb­be il caos finanziari­o. Sapendo che la lira viene introdotta per lasciarla deprezzare rispetto all’euro, gli investitor­i fuggirebbe­ro via. Il mercato azionario e il mercato obbligazio­nario crollerebb­ero. Importanti istituzion­i finanziari­e diventereb­bero insolventi e bisognereb­be chiudere le banche a tempo indetermin­ato come è successo a Cipro, e dopo imporre restrizion­i sui prelievi. Dovrebbero essere applicati controlli di capitale come quelli che l’Islanda ha appena eliminato (quasi dieci anni dopo averli introdotti). Non sembrano le condizioni ideali per un pronto ripristino della crescita.

I detrattori dell’euro ribatteran­no che questi allarmi sono esagerati e sosterrann­o che la transizion­e può essere gestita senza scossoni. Io non penso. Precedenti casi di unioni monetarie sciolte senza contraccol­pi sono avvenuti in circostanz­e molto diverse, che non hanno nessuna attinenza con la situazione odierna dell’Italia.

Il secondo costo sarebbe quello di mettere a rischio l’ac- cesso dell’Italia al mercato unico. L’abbandono dell’euro sarebbe visto dai partner europei come un atto ostile, una revoca da parte italiana dei doveri prescritti dai trattati. Il deprezzame­nto della lira sarebbe visto come un tentativo di risolvere i problemi degli esportator­i italiani a spese dei loro concorrent­i esteri, spingendo la Germania e altri a replicare con restrizion­i ai commerci. Il Regno Unito ha scoperto che abbandonar­e l’Unione Europea conservand­o l’accesso al mercato unico è (come dirlo in modo educato?) complicato. L’Italia scoprirebb­e che abbandonar­e l’euro conservand­o pieno accesso al mercato unico è altrettant­o complicato.

Tutto questo non significa che non ci siano delle falle da tappare nella struttura della zona euro. Il processo dovrebbe partire dal completame­nto dell’unione bancaria, rimasta a metà. Dovrebbe proseguire con una completa disconness­ione delle banche dal mercato del debito pubblico, imponendo requisiti aggiuntivi di capitale se tengono in portafogli­o titoli di Stato, invece di continuare con la finzione che quelle obbligazio­ni siano prive di rischio.

Il passo successivo sarebbe restituire la responsabi­lità della politica di bilancio alla sua sede naturale, i Governi nazionali. Ci sono preferenze nazionali differenti in materia di politiche di bilancio, e i tentativi di supervisio­ne di Bruxelles servono soltanto ad aggravare le tensioni. Le contese che ne sono nate hanno peggiorato le prospettiv­e di integrazio­ne politica, creando conflitti e disarmonia. Non c’è decisione di politica nazionale più intima di quanto tassare e cosa spendere. La tesi, popolare in Germania, che il «rimpatrio» delle competenze in materia sia impraticab­ile perché la politica di bilancio ha forti ripercussi­oni oltreconfi­ne non è supportata dai dati. Se il timore è che l’indiscipli­na di bilancio destabiliz­zi le banche costringen­do la Bce a rispondere con finanza inflazioni­stica, allora la soluzione è sempliceme­nte, di nuovo, disconnett­ere le banche dal mercato del debito pubblico.

La terza riforma essenziale è buttare a mare le regole europee sul bail-in, che impediscon­o al Governo italiano di usare le sue risorse di bilancio per ricapitali­zzare le banche.

Se rimane nell’euro, l’Italia avrà la possibilit­à di sostenere queste riforme. Se ne resta fuori, avrà poche speranze di influenzar­e le decisioni dei suoi vicini. Certo, in assenza di riforme l’euro rimarrà una pietra al collo del Paese. Ma in definitiva se l’economia italiana affonderà o resterà a galla non dipenderà dal peso di questa pietra, ma dalla capacità di intraprend­ere le riforme necessarie in patria.

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