Tagliare i costi poi nuovo partner
Icommissari nominati dal governo hanno sei mesi - prorogabili fino a nove - per presentare un nuovo piano di salvataggio di Alitalia. Dopo la rinuncia da parte dei lavoratori a una ricapitalizzazione da due miliardi che, c’è da scommettere, non tornerà più, la cosa da capire è se l’ex compagnia di bandiera abbia ancora un futuro.
Se ci siano, cioè, ancora nel mondo potenziali partner disposti a investire, e a quali condizioni. È la domanda che oggi si fa anche il governo. Per ora è più facile capire quali siano le strade precluse. La prima è la nazionalizzazione. Lo ha ribadito ieri il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni. E per quanto nel mondo politico la tentazione serpeggi sempre, almeno come alternativa di ultima istanza al fallimento, sembra davvero difficile che qualcuno possa accollarsi un onere tanto gravoso, in termini di costi e di consenso.
La seconda strada preclusa, almeno al buon senso, è quella dello spezzatino e della vendita a pezzi, per singoli asset. Strada percorribilissima se si guarda ai manuali di diritto fallimentare, ma che non avrebbe alcun contenuto strategico. Sarebbe un fallimento, forse meno doloroso per i creditori.
La terza strada che non avrebbe alcun senso strategico - e che infatti il ministro Delrio vede come il fumo negli occhi - è la svendita a Lufthansa o a un’altra compagnia europea di pari posizionamento strategico. Per ora i tedeschi hanno detto di non essere interessati. Alitalia oggi costa ancora troppo. Se la strada del rilancio si rivelasse impercorribile, però, l’ingresso in un gruppo europeo, portando in dote il mercato che resta e il marchio, potrebbe assumere un senso economico. Né il Paese né i lavoratori ne trarrebbero grande vantaggio perché la svendita avverrebbe al prezzo più basso possibile.
La quarta strada preclusa è quella, di cui pure si è parlato, di un intervento di Fs. Si tratterebbe di una variante della nazionalizzazione, con un paio di aggravanti non indifferenti: ragioni di Antitrust e anche di presentabilità politica di un moloch pubblico dei trasporti a tutto campo, alla faccia della concorrenza; rischio di affondare insieme ferrovia e trasporto aereo. Finché parliamo di fusione con Anas, una società di dimensioni relativamente contenute, si può ancora partire a occhi chiusi dal presupposto che Fs oggi sia un gruppo risolto in termini di bilanci e posizione strategica. Passi più complessi richiederebbero di affrontare nodi oggi ancora irrisolti delle Fs, come il trasporto regionale o il futuro delle Frecce.
L’unica strada percorribile, quindi, è la ricerca di nuovi socipartner industriali che possano ancora credere in un’alleanza strategica con la compagnia italiana. “Modello Etihad”, insomma, e poco più. Un vettore globale che cerchi un approdo nel mercato europeo. È presto per capire chi possa essere. Prima i commissari dovranno - oltre a garantire la continuità aziendale per evitare che a pagare siano i passeggeri - fare il lavoro difficile di ripulitura dai costi eccessivi. Quel taglio ai costi - di personale e operativi - che si sarebbe dovuto fare in presenza di soci disposti a investire ancora e di un modello di partnership con Etihad che avrebbe potuto funzionare ma che indubbiamente era stato messo a dura prova dalla cattiva gestione manageriale. Farlo ora, senza certezze, è un po' come intraprendere una strada al buio, senza sapere se alla fine di quella strada un nuovo matrimonio sia possibile. E con la consapevolezza, almeno, che un’ampia gamma di soluzioni intermedie risulterebbero fasulle. Per Alitalia è suonata davvero la campanella dell’ultimo giro e la speranza è che ora ne siano tutti un po' più consapevoli.