La sfida dell’export si vince innovando
Il food & wine italiano ha ampi margini per conquistare le tavole internazionali ma deve rinnovare strategie e offerta di prodotti
La qualità del food & wine italiano è nota e ampiamente celebrata. Il made in Italy rappresenta nel mondo il “saper fare” italiano, caratterizzato da creatività e distintività dei prodotti. Tuttavia il saper fare non è sufficiente, occorre infatti anche “saper portare nel mondo” i prodotti alimentari e su questo l’Italia ha ampi margini di miglioramento. Nel 2016, l’export di alimenti e bevande, secondo Federalimentare, ha superato di poco i 30 miliardi di euro (38 miliardi se si considera tutto il comparto agroalimentare) crescendo del 4,1%. Una quota record, che però rappresenta solo il 5% delle esportazioni mondiali: persino Germania, Francia e Paesi Bassi fanno meglio. Questo nonostante l’alta qualità del made in Italy, dimostrata dagli oltre 800 prodotti, di cui 291 alimentari e 523 vini, a denominazione di origine e a indicazione geografica riconosciuti dalla Ue, rispetto ai 680 della Francia e ai 120 della Germania. Ma questi prodotti, caratterizzati da elevata qualità e riconoscibilità e da un prezzo al chilo mediamente elevato (fino a un price premium del 50% verso i prodotti di altri Paesi), generano solo il 25% dell’export alimentare italiano, pari a 7,8 miliardi. In questo segmento, quindi, la quota di mercato tricolore è superiore a quella di altri competitor e qui nasce l’altra annosa domanda: valore o volume? Ma questa è una domanda mal posta: probabilmente dobbiamo pensare a valore e volume, ma in ambiti differenti.
È evidente che bisogna continuare a presidiare e sviluppare i segmenti premium del mercato, sia per la coerenza con il percepito globale del made in Italy, sia per consentire alle nostre aziende medio-piccole ad alto valore aggiunto di giocare la partita contro le multinazionali, essendo svantaggiate nella battaglia dei volumi e del prezzo ma avvantaggiate sotto il profilo del- la qualità e della tradizione, che rappresentano una garanzia agli occhi dei consumatori.
In questa cornice, i prodotti a indicazione geografica possono giocare una partita rilevante, non solo attraverso la qualità ma anche mediante l’innovazione, per andare incontro ai nuovi trend di consumo che favoriscono il biologico, il salutismo e la sostenibilità. Bisogni, questi, a cui le nuove generazioni sono molto più sensibili di quelle passate. Trend, inoltre, che sono in perfetta coerenza con il modo di lavorare delle imprese italiane medio-piccole e con il dinamismo e la flessibilità dei nostri produttori: in questi ambiti, le nostre aziende sono ben posizionate e possono raccontare una storia di valore che il mondo ci riconosce.
Un esempio di prodotto dove abbiamo unito la tradizione con l’innovazione è quello dell’aceto balsamico. Fino a 25 anni fa, una super nicchia con bassi volumi e alti prezzi unitari. L’innovazione di prodotto e l’industrializzazione della produzione, unite anche a una maggiore “educazione” al mangiar bene italiano, hanno consentito di portare il fatturato ben oltre i 700 milioni e di esportare in più di 120 paesi. L’innovazione può permettere alle piccole aziende di non soccombere di fronte ai numeri e alla forza delle grandi imprese. Non solo: innovare, a volte, significa riscoprire la tradizione sposandola con le novità offerte dalle tecnologie.
Tuttavia, se l’Italia del food & wine vuole av- vicinarsi alla Germania o alla Francia (che raggiungono esportazioni di circa 50 miliardi) non può fare solo la scelta del valore. Occorre crescere, in particolare su segmenti come ad esempio la pasta e le conserve di pomodoro, dove si può far valere l'unicità e la qualità del made in Italy. Ma occorre giocare una partita diversa, anche attraverso forme di associazione fra imprese medio-piccole per superare i limiti della scala, oppure ampliando la gamma prodotti con alcune ricette adatte ai gusti locali.
Le scelte da fare per conquistare i mercati esteri sono oggetto di ampio dibattito, ma per testarne la validità bisogna passare dalla teoria alle iniziative concrete. E un progetto di estremo interesse è quello di «Parma, io ci sto!», un piano di rilancio territoriale partendo dalle eccellenze esistenti, avviato grazie alle sinergie fra imprese, istituzioni e università, che ha nella promozione del «buon cibo» uno dei suoi perni. Il territorio di Parma, con 1,1 miliardi di export, pari al 15% delle esportazioni totali di prodotti Dop e Igp, rappresenta la punta di diamante del settore. Forte anche del Cibus, la seconda fiera alimentare al mondo, l’epicentro della food valley italiana vuole diventare un punto di riferimento internazionale. Molte le iniziative già lanciate dal progetto, fra cui la creazione da parte dell’Università di una Scuola internazionale di alta formazione sugli alimenti e la nutrizione, al fine di qualificare Parma come centro internazionale di expertise sugli alimenti, e il laboratorio Food Farm 4.0 per gli Istituti tecnici superiori locali e gli enti di ricerca (con all’interno impianti pilota per trasformazioni, confezionamento e analisi chimiche per l’agroalimentare). Le iniziative allo studio sono molte e il progetto è solo agli inizi, ma è un tentativo concreto di avviare un percorso di sviluppo sinergico fra vari attori, replicabile in altri distretti produttivi.
LE LEVE DELLA CRESCITA Per aumentare i volumi delle vendite oltrefrontiera l’alimentare è chiamato a creare sinergie territoriali sull’esempio del progetto «Parma, io ci sto!» e a puntare su sostenibilità e innovazione