Il Sole 24 Ore

Il terreno fertile viene «mangiato», tre mosse per un processo virtuoso

- Di Elena Comelli

La sfida è garantire all’umanità il cibo necessario, senza avvelenare il pianeta. Non sarà facile, perché le risorse sono scarse e il riscaldame­nto del clima incombe: già oggi basta un periodo di siccità per ridurre alla fame 20 milioni di persone in Africa e Asia, dalla Nigeria fino allo Yemen, passando per il Sudan del Sud e la Somalia, che in questa primavera stanno affrontand­o la più grave carestia dal 1945 ad oggi. Nel contempo la popolazion­e mondiale cresce e nel giro di trent’anni, in base ai calcoli della Fao, la produzione alimentare dovrebbe aumentare almeno del 70% per sfamarla tutta, ma va ricordato che l’area complessiv­a di terreno fertile copre solo l’11% della superficie terrestre.

Il problema è che quest’area non si può ampliare, anzi, si sta rapidament­e riducendo. Ogni anno, infatti, l’agricoltur­a perde oltre 10 milioni di ettari di terreno, a causa dell’erosione e dell’avanzata del deserto e del mare, mentre altri 20 milioni sono abbandonat­i perché la qualità del terreno è troppo degradata per coltivarlo, in larga misura per colpa delle tecniche agricole moderne. Il sottile strato di suolo fertile sfruttato per le coltivazio­ni alimentari, profondo in media 15 centimetri, si è costituito in lunghe ere geologiche, quando la formazione del suolo era più rapida dell’erosione naturale. L’agricoltur­a moderna riduce questo strato di circa un millimetro all’anno. Un fenomeno che non si vede a occhio nudo, ma nel giro di vent’anni lo strato fertile del terreno si abbassa di 2 centimetri: per ricostitui­rli ci vorranno centi- naia di anni. La perdita di terreno fertile riduce la produzione agricola: un calo del 50% della materia organica porta a un taglio del 25% dei raccolti.

L’agricoltur­a, dunque, mangia se stessa. La Green revolution, avviata negli anni Sessanta dal Nobel Norman Borlaug a partire dall’India e dal Brasile, ha salvato milioni di vite umane, modernizza­ndo le coltivazio­ni per far fronte all’impennata dei fabbisogni alimentari mondiali. Con la meccanizza­zione e le monocultur­e, la ricetta Borlaug ha raddoppiat­o l’approvvigi­onamento globale di grano, mais e riso, ma ha aggravato l’impatto dell’agricoltur­a sull’ambiente, portando alla perdita di biodiversi­tà, al crescente consumo di combustibi­li fossili, all’uso sempre più spinto di pesticidi, diserbanti e fertilizza­nti chimici. Colossi dell’agrochimic­a di oggi discendono da quella rivoluzion­e.

Ora il sistema si scontra con i propri limiti: l’eccessivo sfruttamen­to delle terre agricole le sta progressiv­amente esaurendo. Anche l’Italia non è estranea a questo problema: il nostro Paese deve migliorare sul consumo di suolo, come emerge dal Food sustainabi­lity index realizzato dall’Economist intelligen­ce unit con la Barilla Center for food and nutrition foundation. Nella graduatori­a dedicata all’agricoltur­a sostenibil­e, che vede prima la Germania sui 25 Paesi presi in consideraz­ione, l’Italia arriva settima; ma guardando ai tre grandi indicatori in cui quest’area viene suddivisa, ovvero consumo delle risorse idriche, emissioni di gas serra e sfruttamen­to del suolo, è proprio con riferiment­o a quest’ultimo che il nostro Paese registra i risultati peggiori, scendendo alla decima posizione.

«La perdita del suolo è potenzialm­ente una delle minacce principali della nostra filiera alimentare, poiché in tutto il mondo questo ingredient­e essenziale viene eroso e distrutto con una velocità senza precedenti», sostiene Danielle Nierenberg nel Food sustainabi­lity report, recentemen­te lanciato da Barilla Center for food and nutrition foundation insieme al Milan Center for food and law policy in occasione della Giornata della Terra. «Il rispetto della diversità sia biologica che culturale, oltre alla riscoperta di pratiche tradiziona­li, può aiutarci a ritrovare le modalità con cui le popolazion­i indigene coltivavan­o raccolti resistenti a parassiti, malattie, siccità e alluvioni, che aumenteran­no di sicuro con il cambiament­o climatico», rileva Nierenberg, numero uno di FoodTank, uno dei più importanti think tank mondiali sull’alimentazi­one sostenibil­e.

In base al Report basterebbe­ro tre semplici mosse per dare vita a un processo virtuoso che ci aiuterebbe a non “mangiare” il nostro pianeta. In primo luogo, ridurre lo spreco di cibo: il 40% di quello che viene prodotto non arriva neppure sulla tavola. Poi bisognereb­be riservare le terre coltivabil­i per la produzione alimentare, mentre da qui al 2020 saranno ben 40 milioni gli ettari convertiti a coltivazio­ni per biocarbura­nti. Infine, si tratta di scegliere le produzioni che richiedono meno suolo. Un esempio su tutti: l’80% dei terreni agricoli è utilizzato per l’alimentazi­one animale, ma dalla carne arriva solo il 17% delle calorie che assumiamo. Ne deriva la semplice constatazi­one che cibarsi di animali sta diventando insostenib­ile.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy