Venezuela senza exit strategy
Tre scenari drammatici: cronicizzazione della crisi, colpo di Stato o dimissioni di Maduro
In un Paese dove un litro di acqua minerale costa come un pieno di benzina, le distorsioni sono molte: nella politica, nell’economia e nella società. La prima è questa: quando crolla il prezzo del petrolio, sui mercati internazionali delle commodity, le entrate in valuta estera si assottigliano e le tensioni si moltiplicano.
Stavolta però il Venezuela di Nicolas Maduro è davvero in fiamme ed è difficile intravedere una via di uscita. Una trentina di morti in piazza negli ultimi dieci giorni, il sequestro di uno stabilimento della General Motors, un ipotetico default, l’incognita delle Forze Armate, l’80% della popolazione – secondo dati Caritas – in difficoltà economiche e alcuni leader dell’opposizione in carcere.
Dulcis in fundo un annuncio di Maduro durante il comizio del 1°maggio: un’Assemblea costituente del popolo, «per riformare la struttura giuridica dello Stato e portare la pace al nostro Paese». È questa l’ultima mossa del presidente in un Venezuela stremato e impaurito dalla crisi economica. «Non sto parlando di una Costituente dei partiti o delle élite, intendo dire una Costituente femminista, giovanile, studentesca, una Costituente indigena, ma anzitutto una Costituente profondamente operaia, decisamente operaia che appartenga profondamente alle comunità».
Julio Borges, presidente del Parlamento e oppositore di Maduro, ha replicato con rabbia che questa iniziativa equivarrebbe a «una Costituente truffa, inventata solo per distruggere la Costituzione attuale e cercare di fuggire così all’inesorabile verdetto delle elezioni» che il governo ha ritardato o sospeso da quando ha perso la maggioranza parlamentare nel dicembre del 2015.
Insomma quello attuale è un quadro inquietante da cui non si intravede nessuna exit strategy: due gli scenari possibili. «Il primo è quello di una cronicizzazione della crisi che – secondo l’analista venezuelano Luis Vicente Leon, presidente di Datanalisis – avvicinerebbe il Paese a un contesto simile a quello della Siria, del Perù o della Colombia». In altre parole una cri- si politica irrisolvibile le cui conseguenze si potrebbero estendere per lunghi anni.
Il secondo scenario è quello di un colpo di Stato o di una rinuncia spontanea del presidente Maduro. I conflitti politici generano violenza, superabile con accordi, negoziati e aperture di governo e opposizione; di tutto ciò, in Venezuela, per ora non c’è traccia.
Un populismo paradigmatico
Il Venezuela esprime – secondo un bel libro di Manuel Anselmi, “Populismo”, edito da Mondadori – un caso paradigmatico e, al tempo stesso, sui generis. Paradigmatico perché molte delle dinamiche, avviate dall’ex presidente Hugo Chavez, si sono poi riscontrate in altri Paesi latinoamericani. Sui generis perché lo sviluppo sociale istituzionale, la crisi sociale e politica lo hanno reso uno dei casi più radicali. L’esperienza chavista – spiega Anselmi – ha svolto una promozione di valori progressisti in una prospettiva di azione unitaria pan-sudamericana.
Gli analisti di orientamento liberale hanno criticato l’esperienza chavista e hanno definito il Venezuela una forma di soft-authoritarianism, più precisamente di hybrid regime. Ovvero una democrazia che ha perso i requisiti minimi ma che non può essere considerata un autoritarismo conclamato. Altri analisti ricordano che il populismo venezuelano non può prescindere dalla lunga fase critica che lo ha preceduto. Tra la fine degli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta la società venezuelana ha vissuto un progressivo processo di impoverimento e di decadenza, consistente in un aumento esponenziale della povertà, della criminalità e della polarizzazione sociale dovuta alla drastica riduzione della classe media.
Mario Giro, viceministro degli Esteri, non nasconde la sua preoccupazione: «I venezuelani hanno fatto cadere la mediazione papale e oggi il quadro è davvero inquietante. Non abbiamo neppure ricevuto risposte alla nostra offerta di inviare medicine salvavita». E ancora: «Sono state chiuse varie ambasciate, quella italiana è una delle poche rimaste aperte».
Il rischio di un default
Il calo dei prezzi del petrolio (di cui il Paese è forte produttore) ha innescato una serie di problematiche economico-finanziarie. Una delle prime emergenze è l’inflazione, superiore al 500%, comunque difficile da quantificare per la difficoltà di reperire dati statistici. La gravità della crisi che si propaga dalla politica alle istituzioni, dall’economia alla finanza, ormai mina il concetto di convivenza pacifica del Venezuela e induce a rievocare ciò che accadde in Argentina nel 2001: una situazione economica insostenibile e una crisi sociale incontenibile sfociarono in un default.
Tuttavia lo spettro del default, se non scongiurato, non è un’ipotesi probabile. Innanzitutto un crack provocherebbe una pericolosa instabilità a livello regionale.
Finora Maduro ha pagato tutte le cedole, pochi giorni fa ha effettuato il rimborso di 2,8 miliardi di dollari. Enzo Farulla, analista economico-finanziario indipendente con un passato alla Raymond James Financial, esperto di temi latinoamericani, ritiene poco probabile il default: «Se Maduro dovesse cadere nei prossimi mesi, verrà eletto un governo “market friendly” e quindi ci sarà un rifinanziamento del debito. Se invece la presidenza reggerà a questi scossoni, non si verificheranno emergenze finanziarie. Le scadenze sono infatti nei prossimi 18 mesi».
Non va dimenticato che il debito pubblico del Venezuela è modesto, vicino al 30 % del Pil (quello italiano è superiore al 130% del Pil); non solo: Cina e Russia sono alleate, politicamente e finanziariamente del Venezuela. È questo il vero pericolo, uno scontro che travalichi i confini regionali e coinvolga le Grandi potenze. Gli Stati Uniti supportano l’opposizione, Cina e Russia il governo di Maduro. Ognuno vorrebbe controllare una “quota” di popolazione venezuelana. E del suo petrolio naturalmente.