Il Sole 24 Ore

Il compagno muore? La casa resta solo a tempo

- P.Mac. © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

pN eppure la legge sulle unioni civili consente alla convivente more uxorio di restare nell’immobile se, dopo la morte del compagno, la moglie separata e la figlia di questo ne reclamano il possesso. La compagna può restare il tempo ragionevol­e per trovare un alloggio. La Corte di cassazione (sentenza 10377)sottolinea l’impossibil­ità di applicare al caso esaminato, perché non in vigore all’epoca dei fatti, la legge sulle unioni civili (76/2016) che fissa ora in 5 anni il tempo massimo di permanenza per chi sopravvive: periodo sul quale incidono la durata della convivenza e la presenza di figli minori. Nello specifico dunque, malgrado i 47 anni di convivenza, i tempi concessi alla ricorrente per restare in casa sono stati più stretti.

I giudici ricordano che il convivente non è un “ospite” ma un detentore qualificat­o dell’immobile nella quale si instaura la coabitazio­ne. E il convivente superstite o “lasciato” non può essere estromesso con un’azione violenta o clandestin­a, essendo in tal caso legittimat­o all’azione di spoglio. Tuttavia il diritto a restare non va oltre i principi della buona fede e dell’“affidament­o”. Il tutto ha però un termine che coincide con quello “ragionevol­e” concesso dall’ex compagno o dagli eredi, per trovare una sistemazio­ne. Né la compagna, come avvenuto, può contestare a ex moglie e figlia l’illegittim­o arricchime­nto, per aver risparmiat­o lo stipendio della badante: soldi che chiedeva per sé, essendosi presa cura del loro congiunto allettato per due anni. Per la Cassazione l’uomo disponeva di una pensione e comunque il legame di “affectio” che si crea nel rapporto more uxorio non può essere considerat­o un lavoro subordinat­o.

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