Alla fine un rischio «Alitalietta»
La vicenda dell’Alitalia segue un copione già scritto più volte: a fronte di un piano finanziabile, ancorché non risolutivo, fatto anche per posporre il momento in cui si sarebbe constatata l’impossibilità di risanare veramente l’azienda (evitando di ammettere nel frattempo che gli investimenti o i finanziamenti fatti in passato erano sbagliatissimi), i dipendenti hanno optato per la soluzione più logica, e cioè preferire il commissariamento alle riduzioni di stipendi e di privilegi proposte dagli attuali azionisti e creditori. In altre parole, le garanzie di stipendio e pensione che il “sistema Italia” offre al personale delle linee aeree, sia con la legge Marzano che con i generosi fondi per le ristrutturazioni, rende più conveniente correre il rischio di non lavorare per qualche anno perché intanto, dopo la vacanza pagata, un posto da pilota o hostess in qualche altra linea aerea lo si troverà sempre; per fortuna il trasporto aereo è in crescita, a differenza di altri settori dove alcune aziende sono in crisi perché è il settore ad esserlo (per esempio acciaio, elettrodomestico ecc.).
Il perché l’Alitalia non possa mai guadagnare con l’assetto attuale è arcinoto: su rotte di durata fino a tre ore non c’è modo di esser competitivi con le compagnie low cost o con l’alta velocità ferroviaria, mentre sulle rotte intercontinentali Roma è l’hub meno attraente fra quelli europei per le rotte verso il nord America, dove vola la maggioranza dei passeggeri, e perdipiù Alitalia ha strutturalmente una percentuale bassa di clienti business class dovuta alle caratteristiche delle proprie rotte e clientela. Le occasioni perse in passato, la sindacalizzazione dell’azienda, la scelta di avere un solo hub (Fiumicino scelto a scapito di Malpensa nonostante un bacino di utenza inferiore e una maggiore distanza dalle destinazioni preferite) e la concorrenza vincente delle l ow cost sono tutte cause che ormai è troppo tardi cercare di affrontare; o almeno, sul piano teorico tutto si potrebbe immaginare di fare, ma nella realtà la probabilità di riuscirci, anche con il migliore dei manager alla guida, è praticamente nulla. I dipendenti dell’Alitalia pensano che facendo pressione su Governo e partiti una qualche soluzione si troverà, ma non hanno capito che quelli da convincere non sono i politici ma un nuovo investitore veramente privato e professionale, che questa volta non potrà più essere uno sprovveduto come nel caso degli Emirati Arabi Uniti o di un gruppo eterogeneo di investitori portatori di interessi in altri campi come nel caso della cordata sponso- rizzata da Passera e guidata da Colaninno, e sempre con l’ “aiutino di stato” delle Poste.
Ora va in scena il solito copione di commissari competenti sul fronte legale e finanziario che però devono inequivocabilmente dimostrare ciò che è evidente a tutti, e cioè che l’azienda non è risanabile; la procedura prevista per la dimostrazione è una serie di adempimenti burocratici che termina con un’asta, come se in vendita fosse un gioiello di azienda molto appetibile! Sarà quindi obbligatorio fare un nuovo piano che permetta di illudersi di rimborsare i finanziamenti statali ricevuti per la sopravvivenza, provare in 6 mesi a trovare un investitore che si accolli l’intera azienda (per evi- tare il l ogico ma vituperato “spezzatino”), e provare ad evitare il fallimento; missione a mio giudizio i mpossibile perché questa volta l’investitore maggioritario deve essere europeo (per non perdere i diritti di volo) e non ci sono in giro soggetti desiderosi di investire senza ritorni. Per dipiù 20 anni di perdite e di inutili tentativi di fare funzionare l’Alitalia qualcosa avranno pur insegnato ai potenziali nuovi investitori! In particolare non c’è speranza di trovare qualcuno che accetti di perdere sul corto e medio raggio per la prospettiva di guadagnare, poco e dopo anni e ingenti investimenti, con i voli intercontinentali. La regola del business è proprio il contrario: chiudere dove si perde con certezza e cercare di guadagnare dove si può competere ad armi quasi pari. Un investitore razionale, comunque, non dà credito ad un piano teoricamente fattibile ma si basa sulla probabilità di successo e sul profilo rischio/ rendimento dei capitali propri impegnati nell’iniziativa; per l’Alitalia (o meglio, per quel pezzettino di Alitalia che potrebbe generare profitti a termine) ci vuole un investitore con un coraggio al limite dell’incoscienza.
In teoria si potrebbe anche immaginare un business plan economicamente fattibile: abbandonare tutte le rotte di medio raggio non profittevoli e focalizzarsi su voli intercontinentali da Milano e Roma (e forse da un paio di altri aeroporti italiani) ma con accordi di federaggio con operatori low cost; sostanzialmente si tratterebbe di ridurre il personale per almeno 2/3, ma anche così facendo bisognerebbe trovare un investitore che sia europeo e che non solo abbia i capitali da investire (miliardi) ma anche competenze manageriali e sinergie operative per ridurre i rischi. Dato però che la mentalità prevalente nel personale dell’Alitalia è da azienda pubblica e che la presa sindacale e politica continua ad esser altissima, nessun investitore razionale si avventurerebbe in un’iniziativa così difficile, anche perché dopo qualche anno, e nel ca- so di successo dell’iniziativa, il profitto faticosamente conquistato sarebbe inevitabilmente eroso da scioperi e rivendicazioni salariali. Una fusione della piccola parte risanabile di Alitalia con un operatore di grandi dimensioni sarebbe forse possibile, ma a condizione di mischiare ogni pilota e assistente di volo ex Alitalia con un numero molto superiore di dipendenti abituati a lavorare seriamente senza il paracadute dello stato (come succede quando i piloti italiani vanno a lavorare in Ryanair). A parte Lufthansa, British e Air France non ci sono altri operatori intercontinentali, ma per ognuno di loro è più facile attendere il fallimento della società per non dover ereditare anche le cattive abitudini del personale Alitalia. Qualche fondo di private equity probabilmente dichiarerà un interesse ad esaminare il caso Alitalia (dopotutto Tpg realizzò un grande successo investendo nella quasi fallita Continental Airlines 20 anni fa) ma a condizione di un fortissimo ridimensionamento della compagnia, di applicare contratti di lavoro inferiori a quelli dei concorrenti, e di non pagare un euro per la società; anche per un fondo di private equity baldanzoso il modo migliore per ottenere sia la necessaria discontinuità dal passato sia la selezione di personale e assets da reimpiegare in un nuovo progetto è passare da un vero e proprio fallimento.
Attendiamo quindi pazientemente i prossimi mesi, con tanti focolai di crisi dovuti a fornitori che pretenderanno di esser pagati in anticipo, con continue proposte balzane di politici alla ricerca di consensi e con la certezza di uno o più rinvii delle scadenze dichiarate (come nel caso dell’Ilva), fino all’epilogo inevitabile: l’Alitalia che abbiamo conosciuto e che ha causato perdite di molti miliardi di euro a contribuenti italiani inermi e a investitori e banchieri scriteriati, non esisterà più, ma forse dalle ceneri potrà nascere un’“Alitalietta” alla quale non si potrà che fare molti auguri di successo.
CONDIZIONI La mentalità prevalente da azienda pubblica del personale rende difficile trovare l’investitore che si assuma il rischio
POSSIBILI INTERVENTI Per i grandi operatori e per i fondi di privaty equity è più facile attendere il vero e proprio fallimento della società