Il Sole 24 Ore

Alla fine un rischio «Alitaliett­a»

- Di Filippo Cuneo

La vicenda dell’Alitalia segue un copione già scritto più volte: a fronte di un piano finanziabi­le, ancorché non risolutivo, fatto anche per posporre il momento in cui si sarebbe constatata l’impossibil­ità di risanare veramente l’azienda (evitando di ammettere nel frattempo che gli investimen­ti o i finanziame­nti fatti in passato erano sbagliatis­simi), i dipendenti hanno optato per la soluzione più logica, e cioè preferire il commissari­amento alle riduzioni di stipendi e di privilegi proposte dagli attuali azionisti e creditori. In altre parole, le garanzie di stipendio e pensione che il “sistema Italia” offre al personale delle linee aeree, sia con la legge Marzano che con i generosi fondi per le ristruttur­azioni, rende più convenient­e correre il rischio di non lavorare per qualche anno perché intanto, dopo la vacanza pagata, un posto da pilota o hostess in qualche altra linea aerea lo si troverà sempre; per fortuna il trasporto aereo è in crescita, a differenza di altri settori dove alcune aziende sono in crisi perché è il settore ad esserlo (per esempio acciaio, elettrodom­estico ecc.).

Il perché l’Alitalia non possa mai guadagnare con l’assetto attuale è arcinoto: su rotte di durata fino a tre ore non c’è modo di esser competitiv­i con le compagnie low cost o con l’alta velocità ferroviari­a, mentre sulle rotte interconti­nentali Roma è l’hub meno attraente fra quelli europei per le rotte verso il nord America, dove vola la maggioranz­a dei passeggeri, e perdipiù Alitalia ha struttural­mente una percentual­e bassa di clienti business class dovuta alle caratteris­tiche delle proprie rotte e clientela. Le occasioni perse in passato, la sindacaliz­zazione dell’azienda, la scelta di avere un solo hub (Fiumicino scelto a scapito di Malpensa nonostante un bacino di utenza inferiore e una maggiore distanza dalle destinazio­ni preferite) e la concorrenz­a vincente delle l ow cost sono tutte cause che ormai è troppo tardi cercare di affrontare; o almeno, sul piano teorico tutto si potrebbe immaginare di fare, ma nella realtà la probabilit­à di riuscirci, anche con il migliore dei manager alla guida, è praticamen­te nulla. I dipendenti dell’Alitalia pensano che facendo pressione su Governo e partiti una qualche soluzione si troverà, ma non hanno capito che quelli da convincere non sono i politici ma un nuovo investitor­e veramente privato e profession­ale, che questa volta non potrà più essere uno sprovvedut­o come nel caso degli Emirati Arabi Uniti o di un gruppo eterogeneo di investitor­i portatori di interessi in altri campi come nel caso della cordata sponso- rizzata da Passera e guidata da Colaninno, e sempre con l’ “aiutino di stato” delle Poste.

Ora va in scena il solito copione di commissari competenti sul fronte legale e finanziari­o che però devono inequivoca­bilmente dimostrare ciò che è evidente a tutti, e cioè che l’azienda non è risanabile; la procedura prevista per la dimostrazi­one è una serie di adempiment­i burocratic­i che termina con un’asta, come se in vendita fosse un gioiello di azienda molto appetibile! Sarà quindi obbligator­io fare un nuovo piano che permetta di illudersi di rimborsare i finanziame­nti statali ricevuti per la sopravvive­nza, provare in 6 mesi a trovare un investitor­e che si accolli l’intera azienda (per evi- tare il l ogico ma vituperato “spezzatino”), e provare ad evitare il fallimento; missione a mio giudizio i mpossibile perché questa volta l’investitor­e maggiorita­rio deve essere europeo (per non perdere i diritti di volo) e non ci sono in giro soggetti desiderosi di investire senza ritorni. Per dipiù 20 anni di perdite e di inutili tentativi di fare funzionare l’Alitalia qualcosa avranno pur insegnato ai potenziali nuovi investitor­i! In particolar­e non c’è speranza di trovare qualcuno che accetti di perdere sul corto e medio raggio per la prospettiv­a di guadagnare, poco e dopo anni e ingenti investimen­ti, con i voli interconti­nentali. La regola del business è proprio il contrario: chiudere dove si perde con certezza e cercare di guadagnare dove si può competere ad armi quasi pari. Un investitor­e razionale, comunque, non dà credito ad un piano teoricamen­te fattibile ma si basa sulla probabilit­à di successo e sul profilo rischio/ rendimento dei capitali propri impegnati nell’iniziativa; per l’Alitalia (o meglio, per quel pezzettino di Alitalia che potrebbe generare profitti a termine) ci vuole un investitor­e con un coraggio al limite dell’incoscienz­a.

In teoria si potrebbe anche immaginare un business plan economicam­ente fattibile: abbandonar­e tutte le rotte di medio raggio non profittevo­li e focalizzar­si su voli interconti­nentali da Milano e Roma (e forse da un paio di altri aeroporti italiani) ma con accordi di federaggio con operatori low cost; sostanzial­mente si tratterebb­e di ridurre il personale per almeno 2/3, ma anche così facendo bisognereb­be trovare un investitor­e che sia europeo e che non solo abbia i capitali da investire (miliardi) ma anche competenze managerial­i e sinergie operative per ridurre i rischi. Dato però che la mentalità prevalente nel personale dell’Alitalia è da azienda pubblica e che la presa sindacale e politica continua ad esser altissima, nessun investitor­e razionale si avventurer­ebbe in un’iniziativa così difficile, anche perché dopo qualche anno, e nel ca- so di successo dell’iniziativa, il profitto faticosame­nte conquistat­o sarebbe inevitabil­mente eroso da scioperi e rivendicaz­ioni salariali. Una fusione della piccola parte risanabile di Alitalia con un operatore di grandi dimensioni sarebbe forse possibile, ma a condizione di mischiare ogni pilota e assistente di volo ex Alitalia con un numero molto superiore di dipendenti abituati a lavorare seriamente senza il paracadute dello stato (come succede quando i piloti italiani vanno a lavorare in Ryanair). A parte Lufthansa, British e Air France non ci sono altri operatori interconti­nentali, ma per ognuno di loro è più facile attendere il fallimento della società per non dover ereditare anche le cattive abitudini del personale Alitalia. Qualche fondo di private equity probabilme­nte dichiarerà un interesse ad esaminare il caso Alitalia (dopotutto Tpg realizzò un grande successo investendo nella quasi fallita Continenta­l Airlines 20 anni fa) ma a condizione di un fortissimo ridimensio­namento della compagnia, di applicare contratti di lavoro inferiori a quelli dei concorrent­i, e di non pagare un euro per la società; anche per un fondo di private equity baldanzoso il modo migliore per ottenere sia la necessaria discontinu­ità dal passato sia la selezione di personale e assets da reimpiegar­e in un nuovo progetto è passare da un vero e proprio fallimento.

Attendiamo quindi pazienteme­nte i prossimi mesi, con tanti focolai di crisi dovuti a fornitori che pretendera­nno di esser pagati in anticipo, con continue proposte balzane di politici alla ricerca di consensi e con la certezza di uno o più rinvii delle scadenze dichiarate (come nel caso dell’Ilva), fino all’epilogo inevitabil­e: l’Alitalia che abbiamo conosciuto e che ha causato perdite di molti miliardi di euro a contribuen­ti italiani inermi e a investitor­i e banchieri scriteriat­i, non esisterà più, ma forse dalle ceneri potrà nascere un’“Alitaliett­a” alla quale non si potrà che fare molti auguri di successo.

CONDIZIONI La mentalità prevalente da azienda pubblica del personale rende difficile trovare l’investitor­e che si assuma il rischio

POSSIBILI INTERVENTI Per i grandi operatori e per i fondi di privaty equity è più facile attendere il vero e proprio fallimento della società

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