Anche i pubblicisti possono rifiutarsi di rivelare le fonti
pAnche i giornalisti pubblicisti si possono rifiutare di rivelare le fonti di conoscenza delle notizie pubblicate. Lo afferma la Corte d’appello di Caltanissetta (presidente ed estensore Andreina Occhipinti), in una sentenza del25 ottobre 2016.
La vicenda in esame riguarda due pubblicisti, imputati del reato di favoreggiamento personale per essersi rifiutati di indicare, ai Carabinieri e al pubblico ministero, i nomi delle persone da cui avevano avuto notizie da loro pubblicate su due quotidiani. Ai giornalisti era contestato anche il reato previsto dall’articolo 684 del Codice penale, per aver fatto riferimento ad atti relativi a un procedimento penale nella fase delle indagini preliminari. Il tribunale aveva assolto gli imputati; la Procura generale aveva quindi presentato appello, chiedendo la condanna dei due giornalisti.
Nel decidere l’impugnazione, la Corte osserva che il reato di favoreggiamento si può realizzare anche con una condotta omissiva, e quindi pure con il rifiuto di fornire indicazioni alla polizia giudiziaria. Si deve allora «stabilire - si legge nella sentenza - se gli imputati avessero l’obbligo di rispondere secondo verità» oppure potessero invocare il segreto professionale.
I giudici ricordano, innanzitutto, che l’articolo 2 della legge 69/1963 («Ordinamento della professione di giornalista») dispone che «giornalisti ed editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse». Tuttavia, prima dell’entrata in vigore del Codice di procedura penale del 1988, il giornalista non si poteva esimere dal testimoniare quanto alla fonte della notizia, «non essendo compreso fra coloro che eccezionalmente la legge processuale esonerava dall’obbligo della testimonianza». Solo il nuovo Codice di rito ha previsto, all’articolo 200, «l’esplicito riconoscimento del diritto di astenersi dal deporre anche “ai giornalisti professionisti iscritti nell’albo professionale, relativamente ai nomi delle persone dalle quali i medesimi hanno avuto notizie di carattere fiduciario nell’esercizio della loro professione”».
La Corte osserva quindi che ai pubblicisti non è attribuita la stessa facoltà. E tuttavia, in base a « un’interpretazione in bonam partem dell’articolo 200 del Codice di procedura penale», si può giustificare il rifiuto degli «imputati - ancorché solo giornalisti pubblicisti e non professionisti - di rivelare le fonti di conoscenza delle notizie pubblicate».
Infatti, in base alla
legge
IL PRINCIPIO Il Codice di procedura penale riserva il segreto professionale ai giornalisti professionisti, ma non c’è differenza tra le due attività
69/1963, l’attività del professionista e quella del pubblicista non presentano «differenze di ordine qualitativo», il che consente dunque «un’interpretazione estensiva» della disciplina codicistica sul segreto professionale. Si tratta, peraltro, di una conclusione in linea con l’articolo 10 della Cedu, per il quale il diritto alla libertà di espressione di ogni persona include la facoltà «di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche».
La Corte ha inoltre escluso che gli imputati avessero violato l’articolo 684 del Codice penale. Infatti, i servizi contenevano «notizie di dominio pubblico (…) e comunque generiche».
Così i giudici d’appello hanno confermato l’assoluzione dei due giornalisti.