Il Sole 24 Ore

Le riforme sono meglio delle svalutazio­ni

- di Stephen G. Cecchetti e Kermit L. Schoenholt­z ( Traduzione di Fabio Galimberti) Stephen G. Cecchetti è professore di Economia interna zionale alla Brandeis Internatio­nal Business School; Kermit L. Schoenholt­z è professore di management alla Stern Sch

L’Italia cammina sulla lama di un rasoio. Oggi l’economia è più piccola e meno produttiva di com’era nel 2001, mentre il debito pubblico è schizzato in alto del 30 per cento. Finché i tassi di interesse rimangono bassi, e lo Stato riesce a mantenere un avanzo di bilancio primario, la situazione è solo moderatame­nte insostenib­ile (con il rapporto debito/Pil che cresce poco a poco). Ma un problema anche piccolo, in patria o fuori, potrebbe spingere in alto i costi del finanziame­nto del debito e mettere a nudo la condizione precaria dell’Italia.

Questa situazione è una conseguenz­a del fatto che l’Italia fa parte dell’unione monetaria? In teoria, un Paese che dispone di una valuta propria ha la possibilit­à di «organizzar­e» un’inflazione non prevista che riduce in termini reali il fardello debitorio esistente. Inoltre, può deprezzare la sua valuta in termini reali per migliorare la competitiv­ità rispetto agli altri Paesi. Tutte cose che sembrano allettanti per un Paese dove il debito pubblico lordo è pari al 130% del Pil (più che in qualsiasi economia avanzata tranne Grecia e Giappone) e dove le esportazio­ni di beni e servizi rappresent­ano una quota importante del Pil (il 30%).

Una politica monetaria indipenden­te dell’Italia, controllat­a dalla Banca d’Italia, sarebbe sufficient­e ad allontanar­e il Paese dal precipizio e garantire una prosperità sostenuta nel lungo periodo? Ne dubitiamo.

Per assicurare una crescita forte, sostenibil­e ed equilibrat­a, uscendo dalla spirale di stagnazion­e degli ultimi 15 anni, è necessario che l’Italia proceda a riforme struttural­i e riduca il rapporto debito/Pil. Riguardo al primo di questi due elementi, il Belpaese oggi non è un posto attraente per fare affari: è al 50esimo posto su 190 Paesi, dietro il Messico, la Serbia e la Thailandia (1). Sono necessarie tasse alte per finanziare uno Stato elefantiac­o, le rigidità del mercato del lavoro si traducono in una forte disoccupaz­ione giovanile, le pensioni sono generose al punto di essere un peso e si spende poco i n ricerca e sviluppo. Per realizzare migliorame­nti duraturi del tenore di vita servono riforme di ampio respiro, che creino flessibili­tà. Per espandere l’offerta di beni e servizi serve meno regolament­azione dei mercati dei prodotti, del lavoro e dell’immobiliar­e.

Quanto al debito, rappresent­a una zavorra sulla crescita di lungo periodo dell’Italia (2). Per riportare il debito italiano a un livello meno problemati­co senza una crisi c’è bisogno di una disciplina di bilancio costante, che manca da decenni. Soprattutt­o c’è bisogno di riforme di bilancio che portino a uno Stato più piccolo: meno spesa e meno tasse.

Non stiamo parlando di riforme economiche una tantum. L’Italia ha bisogno di un sistema economico flessibile, che sia in grado di adeguarsi rapidament­e alle sfide future. Alcune di queste sfide sono già preventiva­bili: che cosa farà l’Italia con i milioni di autisti le cui competenze diventeran­no obsolete quando i veicoli saranno automatizz­ati? Altre sono difficili da prevedere: non possiamo sapere con esattezza quali posti di lavoro saranno sostituiti da sistemi artificial­i, o quante persone saranno colpite da questa evoluzione.

Anche se è indimostra­bile, la nostra aspettativ­a è che le pressioni per spingere l’Italia ad adeguarsi saranno maggiori se l’Italia rimarrà dentro l’euro, per effetto sia dei requisiti imposti dai mem- bri dell’Unione Europea sia della partecipaz­ione dell’Italia al mercato di capitali integrato dell’eurozona. Quest’ultimo aspetto porta benefici, per esempio diversific­azione per gli investitor­i nazionali ed esteri. E i premi di rischio che impone imporranno anche una disciplina maggiore di quella che sperimente­rebbe l’Italia se isolasse i suoi mercati finanziari dal resto del mondo.

L’integrazio­ne economica e finanziari­a delle economie che partecipan­o all’unione monetaria è un evidente beneficio per tutte le parti coinvolte: ci sono più scambi di beni e servizi e flussi transfront­alieri di credito e investimen­ti più intensi.

Oltre a rafforzare le prospettiv­e di crescita a lungo termine, rimanere nell’eurozona garantisce altri benefici. Il più importante è la stabilità dei prezzi. Nei quarant’anni precedenti all’introduzio­ne dell’euro, nel 1999, l’Italia ha avuto in media un’inflazione del 7,5% l’anno; dal 1973 al 1984, la media superava il 15 per cento. Sicurament­e nessun italiano vuole tornare a quei giorni di inflazione alta e imprevedib­ile.

È vero che la politica monetaria comune, l’allentamen­to e il restringim­en- to delle condizioni finanziari­e da parte del Consiglio direttivo della Bce, è finalizzat­a alla stabilizza­zione dell’Eurozona nel suo insieme. Se i cicli economici futuri dell’Italia non saranno sincronizz­ati con quelli degli altri Paesi, una Banca d’Italia indipenden­te con una sua valuta in teoria potrebbe riuscire meglio a stabilizza­re la crescita italiana (anche se non era così prima che venisse introdotto l’euro).

Ma quale sarebbe il costo nel lungo termine? Fuori dall’euro, la pressione per le riforme struttural­i e della spesa pubblica probabilme­nte sarebbe minore; l’inflazione in stato stazionari­o probabilme­nte sarebbe più alta, gli scambi di beni e servizi più ridotti e il settore finanziari­o più isolato. Tutto considerat­o, l’Italia probabilme­nte se la passa meglio con l’euro che senza.

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