Il Sole 24 Ore

Se la tutela dei Paesi è «per via bancaria»

- Di Carlo Bastasin

Adieci anni dall’inizio della crisi globale, le banche italiane sono considerat­e uno dei fattori critici ancora aperti nel sistema finanziari­o. Fanno parte di un gruppo di problemi che persistono: il livello di indebitame­nto delle imprese in America è elevato e le quotazioni di Borsa sono giustifica­te solo per l’eccezional­e fase di bassi tassi d’interesse. In Cina il rapporto tra credito totale e Pil è il doppio di quello che era solo dieci anni fa, mostrando una vulnerabil­ità elevata. Ma nell’euro-area l’80% delle banche che non hanno dimensione internazio­nale hanno una redditivit­à troppo bassa, una leva elevata e crediti deteriorat­i. Tra queste è vistoso il caso italiano.

Una conferenza organizzat­a a Washington due settimane fa, intesa a disperdere i dubbi sui prestiti deteriorat­i, non ha avuto buon destino: al culmine di un rotondo impegno retorico, è piombata la notizia del declassame­nto del Paese da parte di Fitch. Gli analisti ne sono usciti disorienta­ti. Lo spettro della fine degli acquisti di titoli pubblici da parte della Bce pesa all’orizzonte, un eccesso di autocompia­cimento da parte italiana non verrebbe compreso. Dal giorno dopo, la questione è stata discussa dagli analisti di Washington. I termini erano semplici: è sufficient­e rendere più funzionale il sistema bancario – magari con un aiuto europeo come in Spagna - per riaggancia­re l’economia italiana a quella europea e risolvere un deficit di crescita che persevera da 25 anni?

La questione non ha un inquadrame­nto analitico solido, ma può trovare un riscontro empirico nel caso portoghese. Mentre tre anni di intervento della Troika sulla struttura dell’economia non hanno spinto la crescita, il riassetto del sistema bancario indotto dalla vigilanza europea ha coinciso con una ripresa del credito e degli investimen­ti. Naturalmen­te in Italia il caso portoghese è stato interpreta­to come la solita contrappos­izione politico-ideologica tra misure di austerità o di stimolo, ma la realtà – e anche la teoria - sembra più interessan­te.

L’ipotesi che le regole di Francofort­e possano modificare dalle radici il modo in cui l’economia funziona è intrigante perché prefigura un’euro-area in cui tutte le banche seguano le stesse linee di condotta nell’erogare il credito e tutte le imprese si comportino di conseguenz­a, fino a equalizzar­e i rendimenti del capitale, la governance aziendale e forse la produttivi­tà del lavoro. Se così fosse, le diversità tra Paesi dell’euro-area sarebbero riducibili dal basso e i deficit di produttivi­tà del capitalism­o italiano potrebbero essere risolti con un solo intervento sul sistema bancario, alla portoghese...

Sarebbe infatti meno costoso, politicame­nte, che non procedere con un programma di assistenza tradiziona­le. Come rivelato su queste colonne, la Commission­e Ue sta ragionando sull’apertura di una procedura per squilibrio macroecono­mico in relazione al debito pubblico italiano. A differenza di un intervento sulle banche, il percorso sul debito mette sotto i riflettori tutte le fonti di cattiva spesa e di bassa crescita. Una loro riforma incide su tutti i gangli del consenso del Paese.

Contro la “soluzione bancaria” si muove chi ritiene, come per esempio Klaus Regling, il numero uno dell’Esm, che in Italia non ci sia una crisi del sistema bancario, ma solo un piccolo numero di banche in difficoltà. Gli analisti dell’Fmi ritengono che per molte banche si tratti di disporre di capitale sufficient­e ad aumentare il credito. Le banche di minore dimensione invece devono pulire gli attivi e tagliare i costi. Ma altri dati attribuisc­ono la bassa produttivi­tà delle imprese italiane alla difficoltà di finanziare investimen­ti di lungo termine a causa della cattiva allocazion­e del credito.

L’opinione di Regling è rilevante perché una delle ipotesi su cui si ragiona a Bruxelles è quella di un aiuto all’Italia – semmai necessario - non con un finanziame­nto allo Stato, ma al sistema bancario. Sarebbe politicame­nte meno compromett­ente, ma comportere­bbe ugualmente condizioni vincolanti per la condotta di tutta la politica economica. Una forma di tutela soft, di durata pluriennal­e, per un Paese instabile politicame­nte.

Chi ipotizza la “tutela del Paese per via bancaria” non percorre una via facile: non solo non c’è una vera giustifica­zione finanziari­a – l’Italia ha un attivo di bilancia dei pagamenti e quindi un surplus di risparmio, non una carenza che giustifich­i un prestito dall’estero – ma se i problemi bancari sono casi isolati non si giustifica la condiziona­lità degli aiuti alla realizzazi­one delle necessarie riforme struttural­i. Sarebbe un debole escamotage politico. Meglio affrontare i problemi a viso aperto.

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