Se la tutela dei Paesi è «per via bancaria»
Adieci anni dall’inizio della crisi globale, le banche italiane sono considerate uno dei fattori critici ancora aperti nel sistema finanziario. Fanno parte di un gruppo di problemi che persistono: il livello di indebitamento delle imprese in America è elevato e le quotazioni di Borsa sono giustificate solo per l’eccezionale fase di bassi tassi d’interesse. In Cina il rapporto tra credito totale e Pil è il doppio di quello che era solo dieci anni fa, mostrando una vulnerabilità elevata. Ma nell’euro-area l’80% delle banche che non hanno dimensione internazionale hanno una redditività troppo bassa, una leva elevata e crediti deteriorati. Tra queste è vistoso il caso italiano.
Una conferenza organizzata a Washington due settimane fa, intesa a disperdere i dubbi sui prestiti deteriorati, non ha avuto buon destino: al culmine di un rotondo impegno retorico, è piombata la notizia del declassamento del Paese da parte di Fitch. Gli analisti ne sono usciti disorientati. Lo spettro della fine degli acquisti di titoli pubblici da parte della Bce pesa all’orizzonte, un eccesso di autocompiacimento da parte italiana non verrebbe compreso. Dal giorno dopo, la questione è stata discussa dagli analisti di Washington. I termini erano semplici: è sufficiente rendere più funzionale il sistema bancario – magari con un aiuto europeo come in Spagna - per riagganciare l’economia italiana a quella europea e risolvere un deficit di crescita che persevera da 25 anni?
La questione non ha un inquadramento analitico solido, ma può trovare un riscontro empirico nel caso portoghese. Mentre tre anni di intervento della Troika sulla struttura dell’economia non hanno spinto la crescita, il riassetto del sistema bancario indotto dalla vigilanza europea ha coinciso con una ripresa del credito e degli investimenti. Naturalmente in Italia il caso portoghese è stato interpretato come la solita contrapposizione politico-ideologica tra misure di austerità o di stimolo, ma la realtà – e anche la teoria - sembra più interessante.
L’ipotesi che le regole di Francoforte possano modificare dalle radici il modo in cui l’economia funziona è intrigante perché prefigura un’euro-area in cui tutte le banche seguano le stesse linee di condotta nell’erogare il credito e tutte le imprese si comportino di conseguenza, fino a equalizzare i rendimenti del capitale, la governance aziendale e forse la produttività del lavoro. Se così fosse, le diversità tra Paesi dell’euro-area sarebbero riducibili dal basso e i deficit di produttività del capitalismo italiano potrebbero essere risolti con un solo intervento sul sistema bancario, alla portoghese...
Sarebbe infatti meno costoso, politicamente, che non procedere con un programma di assistenza tradizionale. Come rivelato su queste colonne, la Commissione Ue sta ragionando sull’apertura di una procedura per squilibrio macroeconomico in relazione al debito pubblico italiano. A differenza di un intervento sulle banche, il percorso sul debito mette sotto i riflettori tutte le fonti di cattiva spesa e di bassa crescita. Una loro riforma incide su tutti i gangli del consenso del Paese.
Contro la “soluzione bancaria” si muove chi ritiene, come per esempio Klaus Regling, il numero uno dell’Esm, che in Italia non ci sia una crisi del sistema bancario, ma solo un piccolo numero di banche in difficoltà. Gli analisti dell’Fmi ritengono che per molte banche si tratti di disporre di capitale sufficiente ad aumentare il credito. Le banche di minore dimensione invece devono pulire gli attivi e tagliare i costi. Ma altri dati attribuiscono la bassa produttività delle imprese italiane alla difficoltà di finanziare investimenti di lungo termine a causa della cattiva allocazione del credito.
L’opinione di Regling è rilevante perché una delle ipotesi su cui si ragiona a Bruxelles è quella di un aiuto all’Italia – semmai necessario - non con un finanziamento allo Stato, ma al sistema bancario. Sarebbe politicamente meno compromettente, ma comporterebbe ugualmente condizioni vincolanti per la condotta di tutta la politica economica. Una forma di tutela soft, di durata pluriennale, per un Paese instabile politicamente.
Chi ipotizza la “tutela del Paese per via bancaria” non percorre una via facile: non solo non c’è una vera giustificazione finanziaria – l’Italia ha un attivo di bilancia dei pagamenti e quindi un surplus di risparmio, non una carenza che giustifichi un prestito dall’estero – ma se i problemi bancari sono casi isolati non si giustifica la condizionalità degli aiuti alla realizzazione delle necessarie riforme strutturali. Sarebbe un debole escamotage politico. Meglio affrontare i problemi a viso aperto.