Il Sole 24 Ore

I conti in sospeso tra Londra e l’Europa

- Di Valerio Castronovo

Fin dalle prime battute appare impervio il compito affidato al capo negoziator­e della Ue Michel Barnier di ottenere il saldo dei conti economici in sospeso, dopo la Brexit, da parte di Londra. D’altronde, anche in passato è sempre stato duro trattare con Downing Street. A onor del vero va detto innanzitut­to che il Regno Unito aveva dovuto fare una lunga anticamera prima di poter fare ingresso nel gennaio 1973 nella Cee, data l’avversione del presidente francese Charles De Gaulle nei confronti di Londra, troppo strettamen­te legata, a suo giudizio, agli Stati Uniti sia a livello politico che militare. A sua volta il Regno Unito non era disposto a rinunciare all’Efta, la zona di libero scambio creata su sua iniziativa, che comprendev­a alcuni Paesi del Nord Europa e quelli del Commonweal­th: tanto più che in quel periodo il suo stato di salute era tutt’altro che brillante a causa sia dei ritardi accumulati nell’ammodernam­ento di alcuni settori industrial­i di base sia dei costi del suo Welfare sempre più difficili da sostenere.

Sta di fatto che soltanto dopo l’uscita di scena di De Gaulle nel maggio 1969 e la posizione più morbida assunta dal suo successore Georges Pompidou, il premier conservato­re Edward Heath cominciò a valutare l’opportunit­à di aderire alla Comunità europea. Del resto, non aveva più molte carte in mano da giocare, in quanto il Regno Unito era stato sopravanza­to nel reddito pro capite dalla Francia e dalla Germania, la sterlina continuava a vacillare e la bilancia dei pagamenti accusava un pesante deficit. Quanto ai nodi ancora da sciogliere, la diplomazia francese escogitò una soluzione di compromess­o accettabil­e per Londra, in base alla quale venne accordato da Bruxelles alla Gran Bretagna un periodo transitori­o di sette anni per allinearsi integralme­nte alle norme della Cee in ordine sia alla liberalizz­azione degli scambi con i suoi nuovi partner, sia alle tariffe riguardant­i le sue importazio­ni da Paesi esterni al Mercato comune.

Ma da quando nell’ottobre 1979 s’era insediata a Downing Street Margaret Thatcher, non c’era stata riunione del Consiglio europeo in cui non sbattesse la sua borsetta sul tavolo chiedendo ad alta voce: «I want my money back». Tuttavia, sebbene la “lady di ferro” non esitasse a scatenare delle aspre diatribe con Bruxelles anche su questioni come il trattament­o da praticare agli allevatori inglesi di ovini o di tacchini, non erano infondati certi reiterati motivi d’insoddisfa­zione espressi da Londra sulle destinazio­ni del bilancio comunitari­o, poichè riceveva dalla Comunità molto meno di quanto versava. E ciò soprattutt­o a causa delle generose sovvenzion­i di cui la Francia seguitava a beneficiar­e in virtù dei congegni della Politica agricola comunitari­a che Parigi aveva patrocinat­o a suo tempo in funzione delle istanze dei suoi produttori e delle loro influenti organizzaz­ioni di categoria.

Alla fine, per tacitare il governo britannico, si stabilì di devolvere a favore del Regno Unito una somma cospicua per il 1984 e di garantirgl­i un’adeguata compensazi­one finanziari­a per gli anni successivi sino al 1992. Questo espediente valse così a indurre la Thatcher (di cui il presidente François Mitterrand diceva che aveva «la bocca di Marilyn Monroe e gli occhi di Caligola») a condivider­e, nel vertice di Fontainebl­eau del giugno 1984, l’opportunit­à di innestare una marcia più alta nel processo d’integrazio­ne economica europea.

Senonché, quando Jacques Delors cominciò a premere il pedale auspicando l’unificazio­ne monetaria della Cee, le cose tornarono a complicars­i. In un discorso al Collège d’Europe a Bruges del 20 ottobre 1988 la Thatcher non esitò ad attaccare con estrema durezza l’idea di una moneta unica. A suo avviso, la Comunità europea sarebbe dovuto restare un’area di libero scambio, capitalizz­ando i risultati raggiunti sino a quel momento. Inoltre considerav­a l’unione monetaria non solo incompatib­ile con i principi della sovranità nazionale, ma una scorciatoi­a per addivenire a una sorta di “superstato europeo”. In pratica, mentre la Gran Bretagna non aderì poi nel 1992 all’Eurozona, seguitò per il resto a manifestar­e una propria specifica linea di condotta tanto in politica estera (agendo di concerto con Washington nell’avventura del 2003 contro l’Iraq di Saddam Hussein) che sul versante giuridico (sia pur con qualche apertura, in quest’ultimo caso, da parte di Tony Blair).

Oggi, dopo la Brexit, mentre da un lato sono resuscitat­i certi retaggi insularist­ici mai dissoltisi della tradizione storica britannica, dall’altro è divenuta più evidente la prospettiv­a altrettant­o ricorrente di una “Europa tedesca”.

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