Finanza per la crescita, capitolo II
«Finanza per la crescita» al secondo capitolo. Il pacchetto di provvedimenti pensato dal Ministero delle Finanze (Mef) nel 2014 aveva come obiettivo quello di aumentare il credito e far crescere le imprese italiane. Molte delle misure elaborate dal think thank sono state “attivate”. A metà marzo di quest’anno il cantiere è stato poi riaperto. Il Mef ha convocato studi legali, advisor, fondazioni per confrontarsi nuovamente (e in via riservata) sul tema. Secondo indiscrezioni all’incontro vi erano tra gli altri rappresentanti di Pwc, avvocati di Clifford Chance, Paul Hastings, Bonelli-Erede, Gianni-Origoni, Ludovici. A coordinare i lavori Fabrizio Pagani, capo della segreteria tecnica del Mef (c’erano anche uomini del Ministero dello Sviluppo). Due i filoni principali di cui si è discusso: come sfruttare la Brexit per attirare in Italia fondi e banche e come eliminare gli ostacoli burocratici e fiscali per gli investimenti esteri. «Un nuovo cantiere? Non è l’immagine appropriata – racconta uno dei presenti –. È stata più una manutenzione del pacchetto “Finanza per la crescita”. Pagani e i suoi collaboratori volevano capire cosa serve ancora per attirare in Italia gli investitori esteri. Nel decreto 50, la cosiddetta manovrina, c’è già qualcosa di quanto si è discusso proprio a quel tavolo benché fosse una misura già pronta da tempo». È la norma sul carried interest, la remunerazione dei gestori dei fondi (in particolare i private equity) che verrà ora tassata come reddito da capitale.
Non più dunque come reddito da lavoro, allineando così il trattamento fiscale italiano a quello di altri Paesi occidentali: da un’aliquota marginale, che in genere viste le cifre in ballo è la più elevata (43%) si passa al 26%. L’obiettivo è di attirare in Italia soprattutto i team dei fondi di private equity, squadre leggere da una ventina di persone.
Ci sono poi le questioni burocrazia e fisco. Advisor e legali hanno spiegato che gli investitori esteri chiedono una maggiore attenzione dall’Agenzia delle Entrate nel momento in cui decidono di entrare in Italia. Nello specifico, è stata chiesta una riduzione dei tempi dell’«interpello sui nuovi investimenti», un strumento introdotto nel 2015 per gli investitori italiani e stranieri che intendono effettuare investimenti in Italia per importi non inferiori ai 30 milioni. La linea portata avanti e recepita già in Italia in alcuni istituti giuridici è: basta con un Fisco repressivo, c’è bisogno di una collaborazione preventiva; l’azienda straniera vuole sapere prima cosa fare per essere in regola. Per l’interpello viene sottolineato che i tempi di risposta sono lunghi visto che ai 120 giorni vanno aggiunti altri 90 in caso di ulteriore documentazione.
Quello che infine si teme più di tutto all’estero è «l’incertezza del diritto». I vantaggi fiscali, per esempio, introdotti e poi eliminati a distanza di qualche anno, mandano in confusione l’investitore straniero (per usare un eufemismo). «Sarà anche paradossale, ma i fondi preferiscono che i benefici non vengano proprio introdotti se, a distanza di poco tempo, vi è una cancellazione degli stessi», afferma un legale. Vi potrebbe essere una strada intermedia: dare un orizzonte temporale definito, non modificabile, per i benefici riconosciuti agli investitori. È probabile che nella legge di conversione del decreto 50 possano essere inserite via emendamento altre misure discusse al tavolo. C’è poi la legge di Stabilità. L’ultima di questa legislatura. Vedremo gli sviluppi.