Il Sole 24 Ore

Al passo con i tempi

- Di Carlo Carboni

Meglio tardi che mai e, soprattutt­o, meglio che il niente di prima, viste le ristrettez­ze della finanza pubblica. Il disegno di legge sul lavoro autonomo, approvato in via definitiva dalle Camere va salutato positivame­nte, soprattutt­o dai nostri giovani che si incamminan­o in percorsi profession­ali.

Questa riforma del lavoro autonomo si occupa del segmento della divisione sociale del lavoro che, per la sua alta densità, costituisc­e una singolarit­à della nostra struttura economica e sociale. L’etica del mettersi in proprio – a partire dall’arte di arrangiars­i – è stata tramandata da una cultura secolare che svolge funzione “ponte” tra mondo del lavoro e imprendito­riale. Nello specifico, è un Ddl di rilievo, poiché riguarda almeno un decimo dell’occupazion­e del paese: un mondo del lavoro autonomo non imprendito­riale che sfuma nell’area “grigia” di circa due milioni e mezzo di free lance, la figura che forse ha maggiormen­te incarnato le trasformaz­ioni intervenut­e negli ultimi decenni sul mercato del lavoro.

Il confine tra lavoro dipendente e indipenden­te si è via via sbiadito. L’effetto di questi mutamenti è da anni visibile, con la formazione di una “terra di nessuno” abitata da una pluralità di figure profession­ali, collocate, non senza contraddiz­ioni, tra lavoratori indipenden­ti e dipendenti. È un’area sociale con elevata eterogenei­tà di competenze e status, ma, in compenso, non di rado con buone radici nella tradizione e nell’innovazion­e. È spesso denominata “grigia” non solo perché, in taluni casi, ibrida forme di autonomia e subordinaz­ione, ma anche perché è percorsa da incertezza e identità lavorative mobili. Il problema di quest’area sociale grigia, che spesso riconoscia­mo come popolo delle partite Iva, è triplice: d’incertezza, d’identità e di riconoscim­ento. La riforma va incontro a questo mondo sociale di outsider e suona come un riconoscim­ento delle competenze e della dinamica espressa da quest’area, che non po- co ha sofferto la crisi.

Anche se con un iter il cui inizio è retrodatab­ile a più di due anni fa e dopo le rituali limature lobbistich­e, la riforma rimette il paese al passo con i tempi. Innanzitut­to, perché sono innegabili l’introduzio­ne di tutele in materia di congedi parentali e malattia o la maggior deducibili­tà fiscale di significat­ive voci quali le spese per la formazione. Soprattutt­o è visibile un taglio innovativo della riforma come nel caso della creazione di reti di profession­isti allo scopo di partecipar­e ad appalti e ai bandi dei fondi struttural­i europei. Questo può far bene alla formazione di reti di competenza territoria­li, allo sviluppo di comunità profession­ali cruciali per la nostra crescita.

Il taglio innovativo emerge anche con l’introduzio­ne dei diritti di utilizzazi­one economica delle invenzioni, ma soprattutt­o con la seconda parte dedicata al cosiddetto smart working, che contempla che modalità, tempi e luoghi del lavoro siano stabiliti discrezion­almente dal dipendente e dall’azienda. Sarebbero già centinaia di migliaia ad aver adottato questa via. Per la prima volta lo smart working viene introdotto nel nostro ordinament­o giuridico con il dipendente “agile”, anche se tale riconoscim­ento sembra sostanziar­si più in enunciati di principio più che fissare paletti o incentivi: con effetti pratici a zero. Per ora sembra prevalere la prudenza. Una riconcilia­zione dei tempi di vita con quelli di lavoro che passi in un accordo discrezion­ale tra dipendente e datore appare rimandato a quando una società più tecnologic­a ci consentirà di farlo. Intanto, il governo Gentiloni mostra che si può procedere anche con riforme che consentono piccoli, ma significat­ivi passi in avanti. E per giunta a costi ridotti.

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