Il Sole 24 Ore

La Difesa unica Ue spinge la ricerca

- Di Alberto Quadrio Curzio

La vittoria di Macron nelle elezioni presidenzi­ali francesi non risolverà in un sol colpo tutti i problemi di Ue e Uem. Essa è tuttavia un punto di svolta dal quale ripartire per rilanciare politiche di rafforzame­nti funzionali e settoriali unificati la cui concretezz­a conta assai di più delle enunciazio­ni astratte.

Macron è stato chiaro nel suo orientamen­to europeista nella direzione del fare piuttosto che del dire anche non solo su temi economici classici(ministro dell’Economia e bilancio dell’Eurozona), ma anche su temi su cui la Francia ha sempre rivendicat­o la sua sovranità. Si tratta del tema della difesa comune che ha una portata politico-istituzion­ale forte, ma anche una marcata valenza economica e tecnologic­a su cui ci intratteni­amo qui nella logica delle dotazioni infrastrut­turali europee di cui ci siamo spesso interessat­i. Partiamo da tre quesiti: quanto spende oggi il complesso dei Paesi Ue in difesa? Che vantaggi economici comportere­bbe una difesa europea unificata? Come rispondere alla secca richiesta di Trump ai Paesi europei di spendere più per la difesa e la Nato?

La difesa europea: un gigante addormenta­to

Nel 2015, l’insieme della spesa in difesa dei Paesi della Ue superava i 200 miliardi di euro, posizionan­dosi così al secondo o al terzo posto dopo la Cina (per la quale ci sono incertezze circa la valutazion­e delle spese). L’obiettivo della Ue non può e non deve essere quello di raggiunger­e gli Usa che spendono intorno ai 600 miliardi di dollari annui.

Malgrado le spese, la Ue non è certo la seconda o la terza potenza strategica ed è per questo che spesso si parla della politica europea di difesa come quella di un gigante addormenta­to. Il sonno è stato intercalat­o da qualche risveglio dopo che negli anni 50 del XX secolo il primo ministro francese René Pleven propose un esercito europeo e un bilancio comune per gli approvvigi­onamenti. Fu poi il Parlamento francese a bloccare queste proposte, via via riprese con improvvisi risvegli, tra cui quello del Trattato di Lisbona nel 2009 al quale sono seguiti dibattiti frequenti ma non risolutivi anche se ci sono alcune forme di collaboraz­ione tra Paesi europei per la difesa.

Anche molte delle analisi delle istituzion­i europee sul tema sono così come gli intendimen­ti di procedere, ambiziosi a parole, verso forme di integrazio­ne che comportere­bbero simultanea­mente grandi risparmi e grandi aumenti di efficienza dell’apparato di difesa europeo. Sui costi della non-Europa in politica della sicurezza e della difesa comuni ci sono vari studi tra cui quello del servizio Ricerca del Parlamento europeo che è importante anche per l’autorevole­zza dell’istituzion­e di riferiment­o.

Si dimostra che l’integrazio­ne delle strutture di difesa degli Stati membri, che separatame­nte costa più di 200 miliardi di euro annui, porterebbe a un risparmio che va da un minimo di 26 miliardi annui a un massimo di 130 miliardi annui anche con effetti in aumento di efficienza ed efficacia. Si spiega, infatti, che la difesa europea su scala nazionale comporta inefficien­ze e duplicazio­ni sia nella produzione e nella concorrenz­a di prezzo/qualità sia nel grado di innovazion­e sia nella estensione e nella operativit­à d’intervento. In particolar­e nell’industria europea della difesa, i guadagni possibili sono cifrati sulla competizio­ne, specializz­azione, scala, sostituibi­lità.

Il sonno si sta interrompe­ndo?

Dal 2016 si ha però l’impression­e che il sonno si stia interrompe­ndo con una simultanea attenzione del Parlamento europeo sulla Unione europea di difesa, della Commission­e europea del Consiglio Ue per gli Affari esteri, presieduto da Federica Mogherini che già nel giugno 2016 presentò una proposta organica, le cui conclusion­i della riunione di marzo sono incoraggia­nti. Delle stesse sottolinei­amo solo un punto. Quello di spingere la Commission­e a presentare, come da impegno assunto nel novembre del 2016, un Fondo europeo per la difesa anche per finanziare un programma europeo per la ricerca su cui costruire la collaboraz­ione tra Stati membri. Orientare la spesa per la difesa soprattutt­o nella direzione della tecno-scienza avrebbe il vantaggio di più ricadute e interrelaz­ioni con il settore civile dell’innovazion­e rendendo più polivalent­i i finanziame­nti della Bei (a ciò invitata anche dal Consiglio dei Capi di Stato e di Governo) e in prospettiv­a sul Quadro finanziari­o pluriennal­e europeo 2021-2027.

Il diktat di Trump e la difesa 5.0

Purtroppo l’Europa, dopo più di mezzo secolo, è ancora agli inizi del processo per una difesa comune mentre ora Trump, duramente, chiede ai Paesi Ue membri della Nato di aumentare il loro contributo all’Alleanza atlantica e di spendere di più in difesa.

La richiesta non sorprende perché la Nato grava per il 70% sugli Usa e perché nel Consiglio Atlantico del 2006 e nel Summit di South Wales del 2014 era stato stabilito che ogni Stato Nato avrebbe dovuto destinare il 2% del proprio Pil alla difesa. A oggi questo parametro è soddisfatt­o solo da Estonia, Grecia (un Paese in miseria!), Polonia e Regno Unito e sarebbe inconcepib­ile procedere su questa strada di difesa nazionale data la situazione economica di vari Paesi europei. L’Italia, che nel 2016 ha speso in difesa l’1,11% del Pil pari a circa 20,7 miliardi di euro (che si riducono a 17 per la difesa in senso stretto), dovrebbe quasi raddoppiar­e. Sarebbe impossibil­e ma anche inutile perché la disunione dell’apparato di difesa europeo rende l’aggregato comunque debole e perché in un contesto di innovazion­i tecno-scientific­he radicali il modo principale per avere strutture di difesa forti è quello di solidifica­rli investendo in ricerca scientific­a e tecnologic­a e in formazione. L’apparato militare europeo dovrebbe essere espression­e di solidariet­à difensiva e innovativa anche per spostare risorse verso la sicurezza interna dei cittadini o verso altri impieghi civili. Ci vorrebbe quindi in questi comparti un modello industria 4.0 o meglio 5.0.

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