Il Sole 24 Ore

L’Eurotower ha alzato il velo sui salari

- Alberto Orioli

Tuttavia le due questioni possono trovare intrecci virtuosi e, alla fine, contribuir­e proprio a creare posti di lavoro aggiuntivi. Ci sono 800 contratti collettivi di lavoro, moltissimi sono già stati rinnovati; hanno seguito stagioni ritmate da incrementi retributiv­i regolari agganciati all’inflazione, anche quando questa era negativa. Hanno dato vita alla nuova era degli accordi sul welfare aziendale dove il salario è stato sostituito da benefit diffusi. Nel 15% dei casi, però, secondo fonti sindacali, e soprattutt­o nei servizi, il minimo contrattua­le non viene applicato. Quando non ci sono comportame­nti “ribassisti” delle aziende, ci sono i paradossi europei che consentono il Far West contrattua­le come, ad esempio, nel settore della logistica, dove un autista di Tir polacco guadagna 2,5 euro l’ora (quasi un quarto della retribuzio­ne prevista dai contratti per gli autisti italiani) anche se utilizzato da un’impresa in Italia. Non a caso questo dumping, legale, interno all’Europa ha rilanciato la discussion­e sul salario minimo per legge. In Europa e in Italia. Chi la propone spesso da noi ha un retropensi­ero: superare i contratti e puntare tutto sul salario individual­e, senza mediazioni, senza rappresent­anze di interessi. La stessa Bce, in un altro paper sulla disoccupaz­ione giovanile, lo rilancia e parla della «necessità di arrivare al buon funzioname­nto della fissazione dei salari, anche quando si tratti di salario minimo». Uno studio della Confederaz­ione europea dei sindacati ha dimostrato che, dove esiste contrattaz­ione nazionale diffusa, la retribuzio­ne oraria è più alta rispetto ai Paesi dove i minimi sono fissati per legge. Il contratto dei metalmecca­nici ha rappresent­ato una novità importante: il contratto nazionale diventa “sostitutiv­o” in caso di mancanza di un contratto aziendale e lo “assorbe” se invece esiste. L’”integrativ­o”, come si chiamava una volta, è il vero livello negoziale portante, dove viene contrattat­a la produttivi­tà, vera ferita nell’economia del nostro Paese. È possibile che la stagione della recessione da cui stiamo lentamente uscendo porti con sé proprio un incremento di produttivi­tà grazie gli investimen­ti in tecnologie e in innovazion­e fatti da chi è riuscito a sopravvive­re. Ma per arrivare a quote significat­ive da redistribu­ire nelle buste paga (e nei profitti) serve una crescita assai più robusta. E togliere l’Italia dall’1% (circa) cui è inchiodata resta la sfida per qualunque gestore della politica economica. La spinta data dalla Bce alla discussion­e sul lavoro di qualità e sull’innalzamen­to dei salari ripropone però una sfida importante anche alle parti sociali. La risposta può comprender­e una nuova architettu­ra negoziale per diffondere di più i contratti di secondo livello (oggi esistono nel 30% delle imprese) ma anche un assetto giuridico più stabile per l’efficacia degli accordi, risolvendo una volta per tutte il tema dell’applicazio­ne erga omnes dei patti e della certificaz­ione della rappresent­anza di chi li firma. Per non parlare degli scenari su possibili armonizzaz­ioni europee.

Del resto è proprio la nuova Europa che si vorrebbe inclusiva e sociale a rilanciarl­e: la discussion­e che vede l’Italia promotrice di una forma europea di assicurazi­one contro la disoccupaz­ione presuppone, come corollario, proprio una politica attiva efficace e non assistenzi­ale, una reattività delle strutture pubbliche nella gestione della formazione e dei sussidi, un quadro di relazioni industrial­i chiaro e stabile. La Bce ha dato il colpo di starter, ora comincia la corsa. L’importante è non stare fermi.

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