Più mobilità contro le facoltà-arcipelago
L’Università di Bologna ha pubblicato sul suo portale una “call for interest” per posti di professore associato o ordinario su alcune aree strategiche di ricerca dell’Ateneo. Altri Atenei stanno facendo altrettanto. “Call aperte” all’università sono una grossa novità.
Si direbbero tentativi di contrastare la cronica tendenza all’ “in-breeding” della nostra accademia che si riflette nel limitatissimo interscambio di docenti e ricercatori tra università e in carriere verticali (come quella di chi scrive) dalla laurea all’ordinariato nella stessa sede. L’immobilismo accademico è conseguenza – inter alia - di sistemi di gestione delle risorse umane che favoriscono la promozione interna e rendono difficile (e sommamente impopolare) il reclutamento esterno ostacolando la nascita di un “mercato del lavoro” nell’ambito della ricerca e della conoscenza.
Ma l’immobilismo accademico non è il solo problema. È un fatto che le nostre università come uscite dalla L240 somiglino sempre di più ad arcipelaghi di isolotti grandi e piccoli – i dipartimenti disciplinari (chimica, biologia, matematica, ingegneria edile, ingegneria elettronica, filosofia, storia, lingue, economia, giurisprudenza, ecc.) - separati da tratti di mare non sempre navigabili.
Anche i docenti che tengono insegnamenti “di servizio” su altre isole (per es. il fisico che insegna a biologia, l’economista che insegna a scienze politiche ecc.) hanno ben poco interesse ad andare oltre le ore di lezione previste dal corso. E i pochi dipartimenti a carattere interdisciplinare sono per lo più il risultato di “matrimoni di interesse” che di scelte culturali e quand’anche lo fossero hanno vita difficile al tavolo delle risorse quando si confrontano con grosse e compatte aggregazioni disciplinari.
Le vecchie facoltà, con tutti i loro difetti, “costringevano” i docenti di aree diverse a incontrarsi periodicamente. Una conseguenza non una ragione d’essere, ma poteva così succedere che un giovane matematico si sedesse a fianco di una astrofisica, o che uno storico potesse incontrare un filologo. Oggi tutto questo non avviene più.
Senza correttivi l’isolamento aumenterà. Potrà sembrare uno scenario distopico, ma le popolazioni delle isole, mancando l’interscambio, finiranno inevitabilmente per sviluppare linguaggi propri e cesseranno definitivamente di comunicare con le altre isole. La “universitas” si ridurrà alla capacità negoziale delle rappresentanze elette nei senati accademici e nei CdA e/o agli algoritmi di riparto delle risorse.
Le tendenze isolazioniste sono, per altro, rafforzate dal confinamento degli insegnamenti e delle carriere negli impermeabili settori scientifico disciplinari (Ssd) e dai meccanismi di valutazione su base strettamente disciplinare messi in opera negli anni recenti. L’interdisciplinarietà non ha comitati di valutazione e mal si inserisce negli indicatori più comuni. Poco conviene oggi a un giovane ricercatore esplorare territori di confine tra le isole disciplinari: rischia di non essere riconosciuto come figlio proprio né dall’una né dall’altra parte. Per non parlare della distribuzione di risorse: senza correttivi è praticamente impossibile fare affluire risorse umane o materiali in zone di confine al di fuori dei grossi raggruppamenti disciplinari. Nella nostra accademia l’interdisciplinarietà non ha “capacità contrattuale”.
Può sembrare un ossimoro, ma il mondo che cambia in modo esponenziale chiede non solo alta specializzazione ma anche capacità di cogliere le sollecitazioni, spesso improvvise e inattese, provenienti da altre discipline o dalla società. Siamo in grado di fare questo? In questo momento si direbbe di no. Scarsa mobilità, verticalità delle carriere, dipartimenti disciplinari, rigidità degli Ssd indeboliscono la capacità di risposta del sistema universitario italiano. Ecco perché bisogna intervenire incoraggiando e non reprimendo l’esplorazione di nuovi territori.
Bene quindi incentivare e premiare il reclutamento esterno, la mobilità e la installazione di nuovi docenti e nuove tematiche nei nostri atenei. Bene anche ricreare luoghi dove le diverse discipline possano incontrarsi e mantenere un linguaggio comune da utilizzare, laddove possibile, nella formazione degli studenti. È dall’incrocio di esperienze diverse che oggi nascono le risposte più innovative.