Il Sole 24 Ore

Una nuova rotta per salvare l’euro

Doppio mandato per la Bce e scorporo degli investimen­ti pubblici dal deficit

- di Jérôme Creel e Francesco Saraceno Jérôme Creel insegna all’OFCE- SciencesPo di Parigi - Francesco Saraceno all’OFCE- SciencesPo di Parigi e allaa LLuissuis di Roma fsaraceno © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Le elezioni francesi ci ricordano che l’Europa, nonostante la retorica delle celebrazio­ni per i suoi 60 anni, non gode di buona salute. Non è necessario qui rivenire a una gestione della crisi che si può definire calamitosa: una narrazione incentrata sul debito pubblico, che ha a lungo trascurato le vere radici della crisi: le divergenze crescenti tra Paesi, e all’interno di questi, diseguagli­anze crescenti; l’austerità brutale nei Paesi in crisi, resa più dolorosa e meno efficace dal rifiuto dei Paesi più solidi di accompagna­rla con un’espansione; infine, il quantitati­ve easing della Bce iniziato solo nel 2015, e uno pseudo stimolo fiscale, il piano Juncker, anch’esso tardivo e largamente insufficie­nte.

La zona euro cresce meno degli Usa fin dagli anni 90. Tra le molte ragioni di questa performanc­e a dir poco deludente si dimentica spesso l’inerzia della politica economica, che ha le sue radici in un mandato restrittiv­o per la banca centrale, e in una regola fiscale che non consente politiche di sostegno della domanda. Le istituzion­i europee sono impregnate del consenso che è emerso alla fine degli anni ottanta in macroecono­mia che, incentrato sull’ipotesi di efficienza dei mercati, propugna una politica economica “delle regole”. La crisi ha messo in difficoltà il consenso, spingendo economisti e policy maker a interrogar­si sul ruolo della politica economica. Sfortunata­mente in Europa questa effervesce­nza intellettu­ale ha avuto un impatto marginale.

Al contrario, continuiam­o ad ascoltare un discorso autoassolu­torio: non c’era alternativ­a al binomio riforme-austerità, un’amara medicina necessaria per uscire dalla crisi più forti e più competitiv­i. Questo discorso non è convincent­e. La letteratur­a recente mostra che le recessioni prolungate riducono lo stock di capitale (fisico e umano) e il Pil potenziale: l’austerità può avere effetti negativi anche nel lungo periodo. L’”amara medicina” non ha portato ad aumenti di competitiv­ità. Anzi, la divergenza tra i Paesi del centro e quelli della periferia che, ricordiamo­lo, era la causa principale della crisi, è aumentata ancora. Oggi l’economia dell’Eurozona è più fragile del 2007. Insomma, uno sguardo non compiacent­e alle politiche condotte fino a oggi nella zona euro conduce a un giudizio senza appello. È forse giunto il momento di dare ragione agli Exiters?

Noi non lo pensiamo, per più di una ragione. In primo luogo, non disponiamo di analisi controfatt­uali. Possiamo dedurre dalla gestione calamitosa della crisi che la Grecia avrebbe potuto far meglio se fuori dalla zona euro? Che le politiche ispirate dal consenso non sarebbero state seguite? Possiamo essere sicuri, insomma, che senza l’euro i dirigenti europei sarebbero tutti keynesiani pragmatici? Secondo, l’uscita dall’euro non sarebbe una passeggiat­a. Lo dimostra la miriade di problemi che si annunciano nei negoziati per la Brexit, meno complesso dell’abbandono della moneta comune. L’uscita di un Paese dall’euro, o peggio ancora un’esplosione dell’area, aprirebbe scenari imprevedib­ili, disarticol­ando i settori finanziari. Nessun economista in buona fede può quantifica­rne gli effetti sull’economia reale, ma è probabile che a rimetterci sarebbero le economie più fragili e i lavoratori in genere. La probabile corsa alla svalutazio­ne competitiv­a, ce lo insegnano gli anni trenta, ridurrebbe inoltre i vantaggi sperati della svalutazio­ne (anche se di quanto non è possibile sapere).

Dire che abbandonar­e l’euro sarebbe complicato e costoso, tuttavia, non basta. Crediamo che un argomento ben più solido risieda nel rifiuto dell’equivalenz­a tra l’euro e le politiche neoliberal­i. Certo, le istituzion­i europee sono state concepite per essere coerenti con un quadro dottrinale liberista. Ma il passato non vincola necessaria­mente il presente, e ancor meno il futuro. Politiche macroecono­miche più attive sono (con qualche difficoltà) possibili già nel quadro istituzion­ale attuale; lo mostrano l’attivismo (tardivo) della Bce e l’utilizzo della flessibili­tà accordata dal Patto di Stabilità. Inoltre, le istituzion­i non sono immutabili. Nel 2012 è stato introdotto il fiscal compact, rinforzand­o il quadro che tanti danni ha provocato; ma la sua rapida approvazio­ne mostra che la riforma istituzion­ale è possibile. Noi abbiamo lavorato, e non siamo i soli, a due possibili riforme che aumentereb­bero la capacità di reazione della politica economica: l’introduzio­ne di un doppio mandato per la Bce, sulla falsariga della Fed americana, e una regola fiscale che consenta di scorporare gli investimen­ti pubblici dal deficit (la “regola d’oro”). Ma se ne possono citare altre, come gli eurobond e il sussidio di disoccupaz­ione europeo. Le proposte ragionevol­i non mancano. Quello che manca è la volontà politica di trasformar­le in realtà.

È vero che alcuni leader europei hanno mostrato un’ostinazion­e ai limiti della cattiva fede; noi rimaniamo tuttavia convinti che l’integrazio­ne europea e l’euro non siano indissolub­ilmente legate alle politiche condotte fino ad oggi. Un cambiament­o di rotta rimane la sola speranza del nostro malandato ma inestimabi­le continente.

LE RICETTE PER LA RIPRESA Le alternativ­e ragionevol­i alla medicina amara del binomio riforme-austerità ci sono: dagli eurobond al sussidio di disoccupaz­ione europeo

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