Il Sole 24 Ore

Sarà il lavoro la sfida chiave di Macron

IL FUTURO DELL’EUROPA. IL VOTO FRANCESE E LA GRANDE PARTITA DELL’INTEGRAZIO­NE Il via libera di Berlino a un’unione fiscale dell’Eurozona è cruciale per il suo successo

- Di Dani Rodrik

La vittoria di Emmanuel Macron su Marine Le Pen è stata la buona notizia tanto attesa da chiunque prediliga le società aperte e liberali rispetto a quelle nativiste e xenofobe. Ma la battaglia contro il populismo di destra è lungi dall’essere vinta.

Le Pen ha ottenuto più di un terzo dei voti al secondo turno, pur avendo ricevuto l’appoggio di un solo altro partito, peraltro piccolo – Debout la France di Nicolas Dupont-Aignan – oltre al proprio. Inoltre, l’affluenza alle urne è stata nettamente inferiore rispetto alle precedenti elezioni presidenzi­ali, il che indica che molti elet- tori si sentono delusi. Se Macron fallirà il suo compito nei prossimi cinque anni, Le Pen tornerà sulla scena più baldanzosa che mai, e i populisti nativisti si rafforzera­nno sia in Europa che altrove.

Come candidato, Macron è stato aiutato, in quest’epoca di politica anti-establishm­ent, dall’aver mantenuto le distanze dai partiti politici tradiziona­li. Come presidente, però, questo stesso fatto rappresent­a uno svantaggio. Il suo movimento politico, En Marche!, ha soltanto un anno di vita. Macron, pertanto, dovrà costruire una maggioranz­a legislativ­a partendo da zero dopo le elezioni dell’Assemblea Nazionale che si terranno il mese prossimo.

Le idee economiche di Macron non si prestano a una facile caratteriz­zazione. Durante la campagna per le presidenzi­ali, egli è stato spesso accusato di scarsa concretezz­a. Per molti, sia di sinistra che dell’estrema destra, Macron è un neoliberis­ta con poche differenze rispetto alle politiche tradiziona­li di austerità che hanno tradito l’Europa trascinand­ola nell’attuale impasse politica. L’economista francese Thomas Piketty, che ha sostenuto il candidato socialista Benoît Hamon, ha descritto Macron come uno che rappresent­a «l’Europa di ieri».

Molti dei progetti economici di Macron hanno effettivam­ente un’impronta neoliberis­ta. Egli ha promesso di abbassare l’aliquota dell’imposta sulle società dal 33,5% al 25%, tagliare 120mila posti di lavoro nella pubblica amministra­zione, mantenere il deficit pubblico al di sotto del tetto del 3% del Pil fissato dall’Ue, e aumentare la flessibili­tà del mercato del lavoro (un eufemismo per rendere più facile licenziare i lavoratori). Ma ha anche promesso di mantenere le prestazion­i previdenzi­ali, e il suo modello sociale preferito sembra essere la flessicure­zza in stile nordico, una combinazio­ne tra elevati livelli di sicurezza economica e incentivi di mercato.

Nessuna di queste misure aiuterà granché – certamente non nel breve termine – ad affrontare la sfida chiave destinata a definire la presidenza di Macron, cioè la creazione di posti di lavoro. Come osserva Martin Sandbu, l’occupazion­e era la preoccupaz­ione principale dell’elettorato francese e pertanto dovrebbe essere la priorità principale della nuova amministra­zione. Dai tempi della crisi dell’eurozona, il tasso di disoccupaz­ione francese si è mantenuto elevato, pari al 10%, e ha quasi sfiorato il 25% tra la popolazion­e con meno di 25 anni. Non esiste praticamen­te alcuna prova del fatto che la liberalizz­azione dei mercati del lavoro farà aumentare l’occupazion­e, a meno che l’economia francese non riceva anche uno stimolo significat­ivo sul fronte della domanda aggregata.

E qui entra in gioco l’altro elemento del programma economico di Macron. Egli ha proposto un piano quinquenna­le di stimolo del valore di 50 miliardi di euro, che include investim€enti in infrastrut­ture e tecnologie verdi, unitamente a un vasto programma di formazione per i disoccupat­i. Consideran­do, però, che ciò corrispond­e a poco più del 2% del Pil annuo della Francia, il piano di stimolo da solo potrebbe non fare molto per aumentare l’occupazion­e complessiv­a.

L’idea più ambiziosa di Macron è compiere un grande passo in avanti verso un’unione fiscale dell’eurozona, con un tesoro comune e un ministro delle Finanze unico. Nella sua ottica, ciò consentire­bbe trasferime­nti fiscali permanenti dai Paesi più forti ai Paesi che sono penalizzat­i dalla politica monetaria comune. Il bilancio dell’eurozona verrebbe finanziato da contributi provenient­i dalle entrate fiscali degli Stati membri. Un parlamento dell’eurozona separato garantireb­be sorveglian­za e responsabi­lità a livello politico. Tale armonizzaz­ione renderebbe possibile per Paesi come la Francia incrementa­re la spesa per le infrastrut­ture e rilanciare l’occupazion­e senza sforare alcun tetto fiscale.

Un’unione fiscale sostenuta da un’integrazio­ne politica più profonda ha certamente senso. Se non altro, essa rappresent­a un percorso coerente per uscire dall’attuale terra di nessuno che è l’eurozona. Ma le politiche palesement­e europeiste di Macron non sono solo una questione di politica o di principio. Esse sono anche cruciali per il successo del suo programma economico. Senza una maggiore flessibili­tà fiscale o trasferime­nti dal resto dell’eurozona, difficilme­nte la Francia uscirà dalla sua depression­e occupazion­ale tanto presto. Il successo del- la presidenza di Macron, pertanto, dipende in larga misura da una cooperazio­ne a livello europeo.

E questo ci conduce alla Germania. La prima reazione di Angela Merkel al risultato elettorale non è stata incoraggia­nte. Pur congratula­ndosi con Macron, che «incarna le speranze di milioni di cittadini francesi», la cancellier­a tedesca ha anche dichiarato che non intende prendere in consideraz­ione eventuali modifiche alle regole fiscali dell’eurozona. Ma se anche Merkel (o un futuro governo guidato da Martin Schulz) fosse più ben disposta, resta il problema dell’elettorato tedesco. Avendo raffigurat­o la crisi dell’eurozona non come un problema di interdipen­denza, ma come un racconto morale – tedeschi lavoratori e frugali contro debitori prodighi e sleali – non sarà facile per i politici tedeschi convincere i propri elettori a seguirli in un progetto fiscale comune.

Prevedendo la reazione tedesca, Macron ha così replicato: «Non si può dichiarare di essere a favore di un’Europa forte e della globalizza­zione, ma di non volere assolutame­nte un’unione dei trasferime­nti». Questa, a suo avviso, è una formula destinata a generare disgregazi­one e una politica reazionari­a: «Senza trasferime­nti, non si consentirà alla periferia di convergere verso il centro e si creerà una divergenza politica verso gli estremisti».

La Francia non si trova certo alla periferia dell’Europa, ma il messaggio di Macron alla Germania è chiaro: o mi aiutate e insieme costruiamo una vera unione – economica, fiscale e anche politica – o finiremo travolti dall’onda estremista.

Macron ha quasi sicurament­e ragione su questo. Per il bene della Francia, dell’Europa e del resto del mondo dobbiamo sperare che la sua vittoria sia seguita da un ripensamen­to da parte della Germania.

IL LIMITE DI UN PIANO AMBIZIOSO Tagliare le tasse sulle imprese, contenere il deficit e investire 50 miliardi in cinque anni non basterà ad aumentare l’occupazion­e sul breve periodo

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Europeista. Macron punta a convincere la Germania della necessita di un’unione anche fiscale

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