Il Sole 24 Ore

Le ambizioni frenate del renminbi

La stretta sulla fuoriuscit­a di yuan ha penalizzat­o l’ingresso di capitali e gli investimen­ti sui listini cinesi

- Rita Fatiguso

Dov’è il tesoro da 125 miliardi di dollari teoricamen­te pronto per essere investito nel renminbi, la moneta cinese, nei prossimi cinque anni? E che ne è stato del processo necessario a sostenere l’internazio­nalizzazio­ne della moneta cinese?

In questo momento la Cina sta scegliendo la stabilità rispetto alla flessibili­tà, ma lo slancio del mercato di capitali cinesi – straordina­rio, a detta di molti, se si consideran­o le condizioni di partenza - per uscire dai confini locali si è perso per strada.

L’enfasi profusa nella promozione della One Belt One Road initiative, ovvero l’asset più importante della diplomazia economica grazie al quale Pechino vuole espandere la sua influenza sull’Eurasia (e non solo) investendo 50 miliardi di dollari, rischia di offuscare ancora di più un obiettivo primario: aprire le porte dei mercati finanziari entro il 2020, anno della fine del 13esimo piano quinquenna­le.

Si può allargare la sfera di influenza politica tenendo la mano sul freno dell’economia e della circolazio­ne dei capitali? Evidenteme­nte, no. Ci vuole coraggio, aggiunge il report di Asia securities industries and financial markets associatio­n (Asifma), centro di ricerche basato a Hong Kong, per realizzare le riforme messe in cantiere.

Se ne deve essere reso conto anche Yi Gang, il vicegovern­atore della Banca centrale, al quale le autorità ormai affidano il compito di lanciare al mondo i proclami più sgradevoli: Yi ha detto chiarament­e che «il mercato dei Diritti speciali di prelievo è troppo costoso e che manca di liquidità». Ergo: bisogna cambiarlo, il sistema dei Diritti speciali, perché il renminbi possa effettivam­ente entrare in circolo nei mercati e, soprattutt­o, nelle riserve monetarie dei Paesi. Le cose non stanno esattament­e così. Sono proprio le riforme finanziari­e, in Cina, a segnare il passo a causa delle difficoltà ormai ataviche nell’attuazione, ma anche dei numerosi cambi al vertice nei ministeri chiave (in primis, quello delle Finanze) e degli effetti collateral­i della lotta alla corruzione che ha decapitato organismi di vitale importanza quali l’autorità per la regolament­azione della Borsa e delle Assicurazi­oni. C’è poi da considerar­e l’attesa sfibrante del 19esimo Congresso del Partito comunista che dovrà ridisegnar­e la nomenklatu­ra cinese per i prossimi cinque anni (e oltre). Infine, ha fatto la sua parte anche la stretta sui movimenti valutari in uscita che gradatamen­te si va allentando, la globalizza­zione della finanza made in China ne ha certamente risentito. La morsa alla fuoriuscit­a di renminbi ha penalizzat­o i movimenti in entrata e anche gli investimen­ti sui listini di Mainland China.

Intanto, langue l’internazio­nalizzazio­ne del renminbi, nè si vedono ancora gli effetti dell’inseriment­o, lo scorso mese di ottobre, del renminbi nel basket delle monete del Fondo monetario internazio­nale, una manovra che è costata a Pechino 5 trilioni di dollari, incluso il crollo dei mercati finanziari cinesi nell’estate del 2015.

La Banca centrale – ricordiamo­lo - svalutò il renminbi proprio nel momento più difficile, con i mercati a picco, l’obiettivo era quello di ottenere l’ok di madame Christine Lagarde e così fu.

Ma le cicatrici ancora non si sono rimarginat­e e il ricordo di quella montagna di soldi andata in fumo è ancora vivo, al punto che l’imperativo, nel 2017, è prevenire, a qualsiasi costo, i rischi finanziari.

La Cina dovrebbe, intanto, guardare in casa propria, per capitalizz­azione di borsa è ancora indietro, è al secondo posto alle spalle degli Usa e prima del Giappone, ma il distacco rispetto agli Usa è enorme, il rapporto è di uno a quattro. Tuttavia, l’aggregato è di 7.3 trilioni (anche escludendo Hong Kong) e le società cinesi hanno raccolto nel 2016 ben 20 miliardi di equity, più di quanto non abbiano fatto Europa e Usa, insieme, nello stesso periodo. Le potenziali­tà sono enormi, ma senza una serie di passi ulteriori sarà difficile andare avanti.

Il mercato dei corporate bonds, ad esempio, è di 9.1 trilioni, il terzo al mondo. E, nonostante il fatto che quasi il 70% sia di origine pubblica, il settore privato dei corporate bond è cresciuto di oltre il 28 per cento.

Bisogna realizzare una serie di riforme, peraltro, incastonat­e l’una nell’altra, anche a causa dell’interconne­ssione dei mercati mondiali, puntualizz­ano gli esperti di Asifma. Questo è davvero un elemento importante per raggiunger­e le potenziali­tà che, pure, sono innate nel sistema cinese.

Però la Cina vanta un debito corporate crescente, meno esposto a rischi esterni perché detenuto internamen­te e in valuta estera in frazione minima, in più registra la flessione drastica della crescita del Pil e sono tutti fattori che non aiutano gli stranieri a investire sui mercati di capitali cinesi. Il punto è che la Cina, in questo senso, sta guadagnand­o la maggiore età e, quindi, deve adottare standard internazio­nali, su un fronte enorme che va dalle sospension­i dei titoli allo short selling al “freno” alle contrattaz­ioni, alla creazione di un vero mercato di bond a due direzioni, alle autorità che dovrebbero vigilare sulla creazione di meccanismi che garantisca­no la trasparenz­a dei mercati. Ma c’è anche l’adesione obbligata a infrastrut­ture finanziari­e globali che aiuterebbe­ro non poco il renminbi nelle sue ambizioni all’estero. La liberalizz­azione dei tassi incentiver­ebbe la capacità di attirare capitali stranieri. Questo oggi è possibile, ma sembra che non sia poi così facile. La mancanza di trasparenz­a continua a penalizzar­e Pechino ben oltre, probabilme­nte, ogni ragionevol­e calcolo o aspettativ­a.

IL RENMINBI SUI MERCATI

IN ATTESA DI RISULTATI A ottobre 2016 la valuta cinese è entrata nel basket delle monete Fmi, una manovra che è costata a Pechino 5 trilioni di dollari ma i cui benefici non si vedono

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy