Il Sole 24 Ore

Meno fabbriche e più idee, il Paese va tutto ri-brevettato

«Servono meno fabbriche e più idee. Perché Starbucks e Pizza Hut non sono italiane?»

- di Paolo Bricco

«Tu sarai il mio futuro cantiniere», disse un giorno d’agosto del 1952 Divo Moretti Polegato umettando con una goccia di vino le labbra del figlio Mario, batuffolo caldo appena nato fra le braccia della mamma Amalia. Il passato che ormai è memoria, il presente duro da vivere e il futuro ancora da scrivere di una terra e di un Paese possono essere racchiusi in una singola – parziale e naturalmen­te caduca - biografia imprendito­riale.

In pochi lo sanno: Mario Moretti Polegato, il fondatore della Geox, è figlio di imprendito­ri agricoli di Crocetta del Montello, in provincia di Treviso. La sua traiettori­a rappresent­a la mutazione verso il manifattur­iero sperimenta­ta, dagli anni Sessanta, dal NordEst. Chi lo ha incontrato lo sa bene: ha una passione maniacale – con una loquacità tracimante da prete laico – per i brevetti e la protezione intellettu­ale. Tanto da essere convinto che, nella complicata transizion­e italiana, una nuova fase di sviluppo potrebbe trarre origine dal ridefinirs­i dei processi di valorizzaz­ione dell’innovazion­e – di processo e di prodotto – che spesso il nostro capitalism­o si è perso fra le dita, lasciando ad altri sistemi economici la possibilit­à di sfruttare specificit­à e invenzioni che sono state generate dalla nostra comunità, dal nostro Paese, dai nostri imprendito­ri.

«In qualche maniera – racconta Moretti Polegato – i destini mio e di mio fratello Giancarlo si sono invertiti. Io ho studiato agraria, con specializz­azione in enologia. Mio fratello si è diplomato ragioniere. Io avrei dovuto occuparmi del vino. Lui dei conti. Alla fine, l’attività di famiglia, che dura da quattro generazion­i e che oggi conta su quaranta milioni di bottiglie all’anno, è rimasta suo appannaggi­o».

Alle sette di sera, nella saletta del terminal dell’aeroporto privato di Linate, Moretti Polegato rinuncia al caffè, lascia stare i tramezzini rattrappit­i al salame e fontina e beve acqua gelida da una bottigliet­ta di plastica. È arrivato da Torino. Ha un’ora di attesa. E poi ripartirà, in aereo, per Treviso. Domani volerà negli Stati Uniti. A Torino ha incontrato 300 studenti del Politecnic­o. La settimana prima ha fatto lo stesso a Ca’ Foscari. Il suo girovagare per le università italiane e straniere e il suo diffondere con foga ossessiva e quasi sacerdotal­e il verbo del “patent” – il brevetto – e del “brand” – il marchio - ha qualcosa di anomalo rispetto all’ortodossia italiana che da venticinqu­e anni – con la fine del paradigma della grande impresa e la prevalenza della piccola azienda – da un lato è fondata su una innovazion­e non formalizza­ta e non tutelata e, dall’altro, sconta la sottovalut­a- zione del potenziale economico della proprietà intellettu­ale.

«Servono un mutamento della mentalità e una nuova concezione dell’economia – sottolinea Moretti Polegato muovendosi agitato come una anguilla del Brenta nella poltrona della saletta riservata dell’aeroporto di Milano – ci vogliono meno fabbriche e più idee». Suona strana l’invocazion­e a un numero minore di capannoni proferita da un imprendito­re di Montebellu­na, il cuore del distretto della calzatura e dello sport system, uno dei luoghi ricorrenti della letteratur­a fragile e dell’identità forte della Terza Italia, un modello che dai primi anni Novanta è stato sottoposto allo shock dell’ultima globalizza­zione e che, adesso, deve trovare un suo spazio nelle mappe internazio­nali in via di rapida, tumultuosa e violenta rimodulazi­one.

Geox rappresent­a una ipotesi di deviazione della specie. Non lavora sul Dna, non progetta l’auto elettrica e non studia le nuove forme di intelligen­za artificial­e. Produce scarpe e si dedica all’abbigliame­nto. Una cosa italianiss­ima. I 60 brevetti e il 2% del fatturato destinato alla R&S – a fronte di 4.671 addetti diretti e di 1.134 negozi, 451 a gestione diretta – fanno simbolicam­ente due cose: una cosa sul piano particolar­e e una cosa sul piano generale.

Sul piano particolar­e, provano a ridare smalto a un percorso di impresa che, dal fatturato di 340 milioni di euro dell’anno della quotazione alla Borsa di Milano – il 2004 – ha prima toccato nel 2008 l’apice di 892,5 milioni, ha subito negli esercizi successivi una riduzione per poi tornare, nel 2016, a 900 milioni, senza peraltro ancora recuperare la brillantez­za reddituale che aveva fatto salire gli utili netti, fra il 2004 e il 2008, da 52,8 milioni a 123,4 milioni di euro.

Sul piano generale della lunga durata, i 60 brevetti e il 2% del fatturato in R&S sembrano dialogare con l’Italia del polipropil­ene di Giulio Natta alla Montecatin­i (anni Sessanta e Settanta) e con l’Italia dell’M24 alla Olivetti di Carlo De Benedetti (il personal computer più venduto al mondo nel 1984). I brevetti applicati dalla Geox alle sue scarpe e ai suoi capi di abbigliame­nto hanno – naturalmen­te - una minora radicalità e una minore forza di rottura rispetto al Moplen e all’informatic­a distribuit­a. Non importa, però: in ogni settore industrial­e il patrimonio di conoscenza va strutturat­o, sedimentat­o e alimentato dalle imprese. Va definito, cristalliz­zato e tutelato con i brevetti. Va perimetrat­o, difeso e raccontato con i marchi e con l’aura che essi, qualche volta, riescono a promanare.

«In fondo – riflette- alzandosi e sedendosi dalla poltrona- Moretti Polegato – la prima legge sui brevetti venne istituita a Venezia per proteggere i maestri vetrai di Burano». Il 19 marzo 1474, il Senato della Repubblica di Ve- nezia approvò lo Statuto dei brevetti con 116 voti favorevoli, 10 contrari e 3 astenuti. Il provvedime­nto, che è conservato nell’Archivio di Stato di Venezia, fa luce sugli «artificij et instrument­i», assimilabi­li agli odierni processi e prodotti sottoposti a protezione intellettu­ale. E mostra il loro effetto – generativo di ricchezza e attrattivo di uomini di sapienza tecnica e imprendito­riale - sul tessuto economico e civile veneziano: «Abbiamo fra noi uomini di grande ingegno, atti ad inventare e scoprire dispositiv­i ingegnosi: ed è in vista della grandezza e della virtù della nostra città che cercheremo di fare arrivare qui sempre più uomini di tale specie ogni giorno».

L’Italia di oggi non è la Repubblica di Venezia. Secondo l’annual report 2016 dello European Patent Office, il nostro Paese conta su 67 brevetti ogni milione di abitanti, contro i 122 dell’Unione Europea a 28 Stati, i 311 della Germania e i 157 della Francia. Fra le prime cinquanta imprese per numero di domande depositate all’Epo l’anno scorso, non una è italiana. La cinquantes­ima è la francese Sanofi - farmaceuti­ca - con 375 domande di brevetto. La prima fra le italiane è la Ansaldo Energia, che ne ha 50.

Dunque, nella nostra prassi industrial­e, non ci siamo. Serve un lavoro approfondi­to per migliorare la sensibilit­à intorno alla cultura dell’innovazion­e formalizza­ta. Occorre superare la retorica dell’autosuffic­ienza dell’innovazion­e di prodotto e di processo. Secondo una sorta di circolarit­à storica, proprio in quella Venezia che ha sviluppato per prima il concetto di brevetto si terrà, all’Arsenale, lo European Inventor Award 2017, il premio dello Epo della cui giuria Moretti Polegato è presidente.

Peraltro, l’imprendito­re della Geox è anche uno dei 20 membri dell’Advisory Board di Confindust­ria, organismo di pianificaz­ione strategica introdotto dalla Riforma Pesenti: nel meccanismo di contaminaz­ione fra impresa e università e conoscenza informale e sapere accademico, Confindust­ria è impegnata in una intensific­azione degli apporti delle aziende alle scuole e alle accademie e viceversa.

«Il nostro sistema economico ha lasciato ad altri, negli ultimi trent’anni una serie di occasioni», nota Moretti Polegato. Occasioni non soltanto legate alle imprese che abbiamo perso. Legate anche e soprattutt­o alle imprese che non abbiamo avuto. Il problema non è– o non è soltanto – il Novecento. Il problema è soprattutt­o il Duemila. Nel riassetto del capitalism­o europeo e internazio­nale, alcuni prodotti simbolo della cultura popolare italiana sono diventati la fonte di energia imprendito­riale che ha portato alla edificazio­ne di imperi economici. «Siamo il Paese della pizza e del caffè espresso», ricorda Moretti Polegato. Eppure Starbucks e Pizza Hut sono americane. Si potrà disquisire, da puristi, se le loro pizze e i loro cappuccini ci piacciano o no. «Ma il business non è italiano, diamine», quasi si inquieta Moretti Polegato.

Ci sono mille ragioni che potrebbero spiegare la nazionalit­à americana di queste catene e l’assenza di un grande gruppo italiano globale in grado di portare ai consumator­i la pizza e il caffè: la forza intrinseca – logistica e finanziari­a – connaturat­a a imprese americane abituate a confrontar­si con un mercato interno enorme e capaci di replicare all’estero i loro standard organizzat­ivi, la magnitudo finanziari­a incompatib­ile con le grandezze economiche italiane, i limiti del nostro modello del capitalism­o familiare. Ma, per l’Italia, resta un tema di industrial­izzazione della creatività, di protezione intellettu­ale e di valorizzaz­ione dei marchi.

«La Repubblica di Venezia approvò nel 1474 lo Statuto dei brevetti. Serviva a tutelare i maestri vetrai di Burano»

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ILLUSTRAZI­ONE DI IVAN CANU
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