Il Sole 24 Ore

Troppe ombre nella riforma fiscale di Trump

- Di Francesco Trebbi

Fino alla rimozione da parte di Donald Trump del direttore del Federal Bureau of Investigat­ion il 9 maggio e il conseguent­e chaos politico, c’era apparente consenso tra gli strategist­i finanziari americani sul fatto che il mercato azionario stesse prezzando una riduzione dell’aliquota massima sui redditi d'impresa entro il 2017.

Dall'attuale 35%, molti prevedevan­o un'aliquota massima al 25% o inferiore. Nel suo piano ufficiale, distribuit­o dalla Casa Bianca alla stampa il 26 aprile, Donald Trump ha indicato una nuova aliquota sui redditi d'impresa ancora inferiore, al 15% (non è chiaro se aliquota massima o sempliceme­nte una flat business tax). Il documento indica, inoltre, la riduzione a tre livelli dell’aliquote tributarie sui redditi personali del 10%, 25% e 35% (ma senza stabilire contempora­neamente a quali scaglioni di reddito verrebbero eventualme­nte applicate).

Le complicazi­oni politiche del sorprenden­te licenziame­n- to di James Comey sembrano aver ridotto le possibilit­à di successo legislativ­o di una riforma tributaria così drastica, ma vale la pena soffermars­i sui dettagli disponibil­i.

Il piano, intitolato “Riforma fiscale del 2017 per la crescita economica e l'occupazion­e americana”, include una pagina (una singola facciata, a doppia spaziatura, per essere precisi), scevra di dettagli ma ricca di enfasi sul futuro fiscale statuniten­se nel breve periodo. Il documento parla di una nuova fiscalitá d'impresa territoria­le, finalizzat­a a stimolare produzione e occupazion­e domestiche attraverso nuova tassazione alla produzione estera. Par- la, inoltre, dell'introduzio­ne di un equivalent­e dello scudo fiscale sui capitali aziendali all'estero e dell’eliminazio­ne di eccezioni fiscali per le lobby e gruppi di interesse. Sul piano della tassazione personale, il documento include l'eliminazio­ne delle tasse di succession­e e dell'importante “alternativ­e minimum tax” (incidental­mente, la componente fiscale di maggior peso sullo stralcio di dichiarazi­one di redditi personale del presidente trapelata a marzo). Il piano è ambiguo sugli incrementi delle soglie di esenzione individual­e (fino a quali livelli di reddito personale non si paghino tasse). Su questo punto, mentre è chiara la di- rezione in termini di una riduzione della pressione fiscale sull’imprese, le conseguenz­e sulle famiglie medie americane sono molto più ambigue.

Ciascuna delle voci indicate nel documento, di per se, costituisc­e una riforma tributaria massiccia. Nel complesso si parla di un piano comparabil­e in proporzion­e solo all'ERTA del 1981 e al TRA del 1986 implementa­ti da Ronald Reagan.

E come nel caso di Reagan anche le componenti di spesa sono state chiamate in gioco in separata sede. Trump ha proposto il 28 febbraio davanti alle due camere del Congresso riunite in seduta plenaria «di lanciare un piano di ricostruzi­one nazionale. Di chiedere al Congresso di approvare legislazio­ne capace di produrre mille miliardi d'investimen­to in infrastrut­ture americane, finanziata da capitale pubblico e private, in modo da creare milioni di nuovi posti di lavoro».

E il disavanzo di bilancio creato dai tagli e dalla spesa aggiuntiva?

Anche qui dettagli quantitati­vi precisi sono inesistent­i, ma l'argomento pare quello di “priming the pump”, di ottenere una crescita della base imponibile attraverso il rinvigorim­ento dell’attività economica nel paese. È un argomento spesso portato avanti in varie forme (inclusa la famosa curva di Laffer) da alcune frange del Partito Repubblica­no, ma con difficoltà quantitati­ve sostanzial­i. Alle manovre tributarie del presidente Reagan è facile attribuire un nesso causale empirico con i massicci deficit di bilancio americani degli anni 80. Meno facile è ascrivere al TRA del 1986 il merito del miracolo di crescita degli anni 90 o degli avanzi di bilancio eventualme­nte registrati sotto Bill Clinton dal 1997 al 2000.

Rimane infine da chiarire come le interazion­i tra politica fiscale e monetaria giochino l’una contro l’altra nel breve periodo. A differenza di molti paesi europei e del Canada, gli Stati Uniti sono ormai vicini al livello di piena occupazion­e. L'output gap appare colmato. Di conseguenz­a, uno stimolo fiscale aggiuntivo alla domanda aggregata può portare a un'accelerazi­one delle pressioni inflattive su prezzi e salari. Tali pressioni verrebbero presumibil­mente ad accelerare il profilo d’incremento dei tassi d'interesse da parte della Federal Reserve, la banca centrale americana. L'attuale governatri­ce, Janet Yellen, ha da tempo comunicato ai mercati un profilo d’incremento del Fed Funds rate di almeno due aggiustame­nti di 25 punti base ciascuno entro la fine del 2017. Questo profilo di contrazion­e monetaria è già prezzato nella curva dei rendimenti dei titoli di stato americani.

Come in molte altre dimensioni dell’amministra­zione Trump, anche la politica fiscale appare piena di complessi dettagli lasciati incompleti e d’incertezze. Non è chiaro se questo sia fatto in modo politicame­nte deliberato o meno. Fino a poco tempo fa il mercato azionario non pareva aver particolar­i dubbi. Dopo gli eventi di giovedì, anche questo potrebbe cambiare.

MENO TASSE ALLE IMPRESE Sulla volontà di ridurre il prelievo sui redditi di’impresa il piano della Casa Bianca è lineare, più ambiguo sulle conseguenz­e per le famiglie

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