Proiettati nell’anno 802.701
«Fin dove potevo vedere, tutto il mondo dispiegava la stessa esuberante ricchezza della valle del Tamigi. Da qualsiasi altura scorgevo la stessa abbondanza di fastosi edifici, incredibilmente vari per materiali e per stile, gli stessi fitti boschi di piante sempreverdi, gli stessi alberi fioriti, le stesse felci»: ecco lo scenario, che fa pensare a una sorta di “falso” paradiso terrestre, che il Viaggiatore del Tempo si trova dinanzi dopo lo straordinario salto nel futuro, che lo ha portato nell’Inghilterra dell’anno 802.701 grazie ad una macchina incredibile, fatta di «parti di nichel, altre di avorio, altre ancora, limate o segate, di cristallo di rocca». È lui, appena tornato dal suo salto nel tempo, a raccontarcelo, dopo un’entusiasmante e paurosa avventura che quasi gli costava la vita.
Questo è il presupposto de La macchina del tempo, uno dei più famosi, e imitati, romanzi di fantascienza di Herbert George Wells, un autore inglese molto prolifico, padre dell’Uomo i nvisibile, dell’Isola del dottor Moreau e della Guerra dei mondi, incentrata sull’invasione di alieni. Un testo, quest’ultimo, che, nella versione radiofonica trasmessa ambiguamente da Orson Welles come reportage dal vivo, generò persino un’allucinazione collettiva nell’America degli anni trenta.
Wells, laureato in zoologia e membro della Fabian Society proto-socialista, ha affrontato nella sua produzione letteraria e saggistica alcune fra le principali tematiche del suo (e del nostro) tempo, dal rapporto fra le classi in un capitalismo aggressivo all’etica della scienza nella modernità, dal ruolo pericoloso della tecnologia ai possibili guasti d’una globalizzazione che accentua i divari sociali del mondo.
La macchina del tempo è uno dei suoi primi romanzi. Uscito nel 1895, dopo una serializzazione un po’ controversa su alcune gazettes, ebbe subito un colossale successo di pubblico, rafforzando un dibattito, già in ebollizione, sul ruolo futuro del darwinismo, laddove ipotizza una possibile «regressione zoologica» dell’uomo, destinato a compiere il percorso evolutivo dalla scimmia all’incontrario, sino alla propria estinzione. È questo il messaggio principale del romanzo, in cui Wells riprende il tema del “trasferimento” nel tempo già enunciato nel racconto di Edward Page Mitchell L’orologio che andò all’incontrario (in La tachipompa e altre storie), del 1881. Il viaggio dello scienziato descritto nel romanzo, infatti, proietta lo scenario della valle del Tamigi in un futuro lontanissimo in cui vivono due “razze” contrapposte. Da una parte gli Eloj, edulcorato popolo di creature eteree e gentili con l’intelletto di bambini, innocui all’apparenza quanto pacifici e del tutto incapaci di svolgere un’attività lavorativa, raffinati mangiatori di frutta in un contesto bucolico in cui riaffiorano qua e là le vestigia del passato (un’immagine cara al romanticismo affascinato dalle rovine ri- coperte dalla natura). Dall’altra parte i Morlock, esseri biancastri e viscosi, orrendi nelle forme e fatalmente carnivori, assassini per necessità.
Proprio in quella valle ubertosa dove si posa la “macchina del tempo” del nostro scienziato affiorano strani orifizi da cui fuoriescono rumori cupi e profondi che scendono nelle viscere della terra. Veri e propri pozzi che, nella finzione sconcertante di Wells, fungono da collegamento - fonte di grande orrore - fra una società di ricchi e satolli dominatori e una di depravati esseri ciechi. Là sotto, i Morlock lavorano nell’oscurità per fornire agli Eloj ogni forma di sostentamento, manovrando complessi macchinari industriali. Apparentemente sottomessi, i Morlock escono nelle lunghe notti senza luna per approvvigionarsi di cibo: i poveri corpi degli stessi Eloj catturati. Una società agghiacciante, in cui la rigida separazione tra le classi prefigura un delitto di sfruttamento e uno, per contro, di compensazione “alimentare”.
Wells, evidentemente, prefigura i guasti d’un capitalismo vorace destinato a diventare a sua volta cibo. Come nota Michele Mari nell’acuta prefazione all’edizione Einaudi, egli ci mostra qui, come confermerà quattro anni dopo in un “prequel” del romanzo i ntitolato Quando chi dorme si sveglia, l’immagine degli operai londinesi di fine secolo XIX «in fabbriche sotterranee mentre si avviano a un inesorabile processo involutivo, a partire dalla destrutturazione linguistica».
Con La macchina del tempo, in cui il protagonista torna tra i contemporanei - solo momentaneamente perché poi riparte e scompare nel nulla - per depositare il suo accorato monito contro la degenerazione della rivoluzione i ndustriale vittoriana, Wells rubò molto alla fama di Verne, quasi suo coetaneo, il quale, ispirato alla lode del progresso, ebbe a contestare la sua «mancanza di credibilità». I due non potevano certo piacersi, specie laddove Wells sconfina nell’analisi sociale (dedicherà gli ultimi romanzi esclusivamente alla realtà, con una particolare attenzione all’emancipazione femminile). Del resto, la possibile estinzione dell’umanità a causa dell’evoluzione tecnologica non era facile da ipotizzare a quel tempo.
Herbert George Wells, La macchina del tempo, trad. di Michele Mari, Einaudi, Torino, pagg. 126, € 17