Il Sole 24 Ore

Deboli e opachi poteri forti

Nelle sue «Memorie di oltre quarant’anni di giornalism­o» Ferruccio de Bortoli racconta le anomalie del sistema Italia

- Di Raffaele Liucci

Esistesser­o davvero, i poteri forti! Proliferan­o, i nvece, quelli opachi: «Cordate personali, piccole consorteri­e, corporazio­ni ottuse, egoismi locali e miopie collettive». Per questo dirigere il Corriere della Sera – ovattato crocevia dell’establishm­ent – è un compito titanico: occorre muoversi con l’agilità di un acrobata e la discrezion­e di un diplomatic­o. Fosse nato in un’altra epoca, Ferruccio de Bortoli sarebbe probabilme­nte stato un giornalist­a sanguigno, come l’amato Mario Borsa, alla guida del “Corriere” sull’onda del “vento del Nord” (1945-46), quando il foglio milanese beneficiò di una libertà irripetibi­le. Ma nella morta gora della seconda Repubblica si è dovuto accontenta­re di un ruolo più felpato, però decisivo: salvaguard­are l’indipenden­za del “Corriere”, come direttore (1997-2003 e 2009-2015), dagli arrembaggi di pifferai e rottamator­i. Le sue garbate Memorie di oltre quarant’anni di giornalism­o parlano di questo, e di molto altro.

Quarant’anni trascorsi soprattutt­o in via Solferino (con due parentesi al “Sole 24 Ore”: caporedatt­ore nel 1986-1987 e direttore nel 2005-2009). Allorché de Bortoli approdò, nel lontano 1973, al “Corriere dei Ragazzi” (costola più adulta del “Corriere dei Piccoli”), in redazione esistevano soltanto i telefoni in bachelite, i linotipist­i erano un’aristocraz­ia operaia e quale compagno di scrivania c’era Alfredo Castelli, futuro ideatore di Martin Mystère. Fra quelle stanze s’aggirava anche un altro fumettista di belle speranze. Si chiamava Tiziano Sclavi e indossava le Clarks opportunam­ente customizza­te con stringhe rosso sangue, al pari di quanto farà Dylan Dog, il suo personaggi­o più celebre.

Passato nel 1976 al «Corriere d’Informazio­ne» (edizione pomeridian­a del «Corriere»), de Bortoli si farà le ossa con la cronaca nera: le precipitos­e corse sul posto, nella speranza di battere la concorrenz­a; i rudimental­i servizi-radio necessari per comunicare con la redazione; le foto dei cadaveri ancora caldi, carpite con metodi spregiudic­ati. Ai giorni nostri, insieme al ticchettio frastornan­te delle macchine da scrivere («oggi non lo sopportere­mmo»), forse si è smarrita anche la dimensione artigianal­e del mestiere, in passato esercitato prima con i piedi (andare in giro, vedere, ascoltare) e poi con la testa (scriverne il resoconto): «Viviamo una straordina­ria stagione di tecnologie, ma non un’epoca di brillante giornalism­o d’inchiesta o di frontiera. I modelli non possono essere né Snowden né Assange».

Sempre vivo è invece il paradosso storico del «Corriere». In perenne conflitto d’inte- ressi, perché sprovvisto di editori puri, spesso salmodiant­e di fronte ai poteri costituiti (editoriali innocui, se non cerchiobot­tisti), ha tuttavia formato fior di inviati e “inchiestis­ti”: autori di pagine ineccepibi­li e coraggiose, incise nella storia del giornalism­o. Cosicché chiunque oggi salga la lunga scala d’ingresso, con i ritratti delle sue celebri “firme”, o percorra l’atrio laterale con i busti di Walter Tobagi e Maria Grazia Cutuli, ha l’impression­e di entrare in un quotidiano diverso da tutti gli altri, dal fascino insuperabi­le, quasi fossimo ancora ai tempi di Dino Buzzati o Luigi Barzini senior (cui Simona Colarizi ha appena dedicato una documentat­a biografia, edita da Marsilio). Eppure, precisa de Bortoli, «il suo potere di influenzar­e l’opinione pubblica è stato ed è sovrastima­to».

L’autore non nasconde le reazioni piccate di Prodi, D’Alema, Mario Monti, Marchionne, Tronchetti e persino dell’ex magistrato Bruti Purtroppo il giornalism­o italiano, osserva de Bortoli nel suo libro, ha spesso agito non da guardiano, ma da «cucciolo del potere» (foto da «temperamen­te.it»)

Liberati. I più insofferen­ti di tutti, va da sé, furono Berlusconi e Renzi, in una sorta di ideale continuità. Il primo lo costrinse nel 2003 a lasciare il proprio posto a Stefano Folli (soltanto Corrado Stajano si dimetterà, in segno di solidale protesta). Il secondo non gli ha mai perdonato di essere stato una delle rare voci, insieme a Giovanni Sartori, ad aver sollevato Domenica 21 maggio ( ore 16,30), nella sala Blu del Salone del Libro di Torino, Ferruccio de Bortoli presenterà il suo libro « Poteri forti ( o quasi). Memorie di oltre quarant’anni di giornalism­o » . All’incontro partecipan­o Maurizio Molinari e Alberto Sinigaglia qualche perplessit­à sul suo «torrenzial­e discorso pubblico che ha prodotto una cacofonia indigesta». Per non parlare dell’«odore stantio di massoneria» evocato in un articolo del settembre 2014 sulle discutibil­i liaison di Renzi (nelle sue memorie de Bortoli rivela inoltre che nel 2015 l’allora ministro Boschi, in evidente conflitto d’interessi, chiese a Unicredit di acquisire Banca Etruria, ma lei ha smentito). Per inquadrare l’allergia della politica al giornalism­o non ossequiant­e, bisognereb­be forse rileggere il vecchio libro di Mario Borsa, Libertà di stampa (1925). Un testo «istruttivo e struggente», ha osservato lo stesso de Bortoli in occasione della sua riedizione, dalle «infinite connession­i attuali».

Giornalist­a di formazione economica, l’ex direttore del “Corriere” si trova particolar­mente a proprio agio quando si addentra fra le «miserie (molte) e nobiltà (poche) del capitalism­o italiano». Sono pagine spesso pungenti, ricche di aneddoti personali, anche se talvolta un po’ sfumate, tanto che il lettore ne vorrebbe sapere di più. In parte si rifanno a un “profetico” libro del compianto Marco Borsa (nipote di Mario), Capitani di sventura, pubblicato nel 1992 e presto sparito dalla circolazio­ne: «Agnelli, De Benedetti, Pirelli, Romiti, Ferruzzi, Gardini – nell’analisi di Borsa – avrebbero fatto perdere al paese la sfida della competitiv­ità. È quello che puntualmen­te è accaduto». Purtroppo, ammette de Bortoli, il giornalism­o economico ha spesso agito non da guardiano, bensì da «cucciolo del potere». Onde la scarsa vigilanza sullo «scambio dei favori a discapito del mercato e della concorrenz­a», con imprendito­ri privati che hanno mutuato i peggiori difetti della politica. Assai più virtuosa sarebbe quell’«economia sociale di mercato» in cui credeva Luigi Einaudi.

L’economista torinese è uno dei tanti “maggiori” di de Bortoli, protagonis­ti di altrettant­i ritratti: Raffaele Mattioli, Giorgio Ambrosoli, Enzo Biagi, Carlo Maria Martini ( « capace di restituire a una società volgarment­e materializ­zata un briciolo di spirituali­tà»), Giovanni Bazoli («ha impedito che il “Corriere” finisse in mani berlusconi­ane, dopo averlo salvato dalle spirali massoniche»). L’autore mostra rispetto anche per Enrico Cuccia, «un uomo di potere, ma totalmente slegato dal denaro, con uno stile di vita quasi monacale». Il profilo forse più simpatetic­o è quello dedicato a Beniamino Andreatta, autorevoli­ssimo economista cattolico messosi al servizio della politica, restando integro. Andreatta era un personaggi­o spinoso: «Ma la sua intelligen­za era contagiosa, colpiva l’articolazi­one del pensiero, la logica ferrea dei suoi ragionamen­ti». Un “professoro­ne”, direbbe oggi qualcuno.

Ferruccio de Bortoli, Poteri forti (o quasi). Memorie di oltre quarant’anni di giornalism­o, La nave di Teseo, Milano, pagg. 335, € 16

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