Dotto luna park di colori
Ottimismo, impegno ma anche superficialità sono i temi che si incontrano nella 57esima Esposizione Internazionale d’Arte Visiva diretta da Christine Macel
La vitalità della Biennale di Venezia non sta nella sua mostra centrale, dove vediamo da tempo mostre simili a quelle che si organizzano nei musei, e anzi spesso un po’ meno rischiose. Sono gli eventi collaterali, e spesso quelli non ufficiali, a fare grande e diversa la manifestazione. Tuttavia la presidenza di Paolo Baratta ha sempre scelto per la direzione dei veri professionisti e ci ha garantito rassegne che hanno saputo mettere in scena i maggiori trend del momento, se non proprio iniziarne di nuovi.
Christine Macel non fa eccezione. Come premesso dalle conferenze stampa, la sua 57esima Mostra Internazionale d’Arte Visiva ci immette in un tentativo di ottimismo, quasi in un colto luna park dove i colori, i giochi delle forme, l’insistita pluralità degli approcci condividono il sottofondo dell’impegno umano e sociale: casi esemplari sono quelli di Olafur Eliasson, che ha coinvolto i membri della comunità africana con cui collabora da tempo per costruire oggetti sostenibili dalla biosfera, nonché dall’installazione abitabile di Ernesto Neto, che ha chiamato gli sciamani brasiliani Huni mescolando il linguaggio della performance, quello dell’arte ambientale e quello della cultura indigena brasiliana.
| L’installazione di Sharif Hassan esposta alla 57esima Mostra internazionale d’Arte Visiva allestita a Venezia fino al 26 novembre
Incontriamo alcuni nomi molto noti con alcune opere classiche, come il severo “quasi oggetto” di Philippe Parreno che genera una nube di suono e di luce ispirata alla nebbia di Venezia; le pitture-collage di John Latham, che accompagnano del resto molte altre riscoperte in ambito appunto pittorico; i quadri geometrici a cui ci ha abituato Gabriel Orozco, accompagnati da una struttura di travi che riflette sull’uso atavico di imporre geometria alla natura pur di abitarci dentro. La manualità, del resto, è un po’ dovunque, talvolta felicemente integrata con la tecnologia: Yee Soo-
kyung porta dalla Corea un enorme vaso con nove draghi, direttamente in arrivo da un “wonderland”; l’indiana Rina Banerjee propone l’ingrandimento di decorazioni dichiaratamente banali ed eccessive, come quelle che servono durante i matrimoni e i funerali, da cui provengono suoni e luci; la libanese Huguette Caland offre tuniche indossabili che parlano di nudità, mal di stomaco, vergogna e altri sentimenti che appaiono nelle intimità vere. Ecco altri abiti indossati da manichini in acciaio e lamiera: Francis Upritchard mescola la sua origine neozelandese con la moda di Londra, in un
montaggio di culture che ormai ci tocca tutti quanti. Michel Blazy presenta una collezione di scarpe che mescolano le piante, terra e calzature. Il pericolo del vetrinismo ogni tanto è in agguato e ne sono parte integrante anche le quadrerie, per esempio quella dell’americana Bonnie Ora Sherk.
Alcune riscoperte parlano sia del passato che entra dentro al presente sia di diverse discipline che interagiscono con l'arte; tra tutte le rivisitazioni, vale la pena di ricordare quella di Anna Halprin, che ha rinnovato la notazione della danza e anche la tipologia di corpi da coinvolgere in un bal- letto. Installazioni video e ambientazioni illuminano il percorso con pause di riflessione, inclusa quella che vede Lee Mingwei invitarci del giardino progettato da Carlo Scarpa per le sculture.
Le due sequenze che portando dentro al Padiglione centrale e al tubo ottico che attraversa l’Arsenale si mescolano nella memoria del visitatore, con un sapore femminile che contraddice quello, ideologizzato e pieno di segni maschili, dalle armi alle macchine, della scorsa biennale. Questa cerca di comporre i conflitti invece di esacerbarli. Suoni, l ucine colorate, gente che lavora, oscurità complici, niente freddezza medicale dei luoghi d’esposizione modernisti.
È veramente buonumore e gusto di viver bene, come recita il titolo VIVA ARTE VIVA , o piena società dello spettacolo? Occorre tempo per capire.
Per ora, a onore della mostra, stanno alcune sue caratteristiche inedite: prima di tutto, la possibilità di vedere in streaming e quindi anche a lontano le performance che si svolgeranno nei mesi; uno sguardo gettato dentro il farsi dell’opera, che tocca l’apice con la camera fissa sulla vita quotidiana del performer Dawn Kasper; l’idea di abbandonare un tema solo per accostare in modo paratattico dei trans- padiglioni, dedicati a qualcosa di atemporale come artisti e libri, tempo e infinito, gioia e paura, spazio comune, terra e tradizioni, sciamani e dionisiaco, colori. Una simile categorizzazione fa pensare a una concezione della mente come luogo di tendenze innate, dagli archetipi di Jung alle forme simboliche del neokantiano Cassirer, ma va detto che la curatrice consente a ciascun artista di esplicitare, in un padiglione geniale, la propria biblioteca di base: così almeno sappiamo quali sono le fonti verbali da cui sorge tanta sensualità, e per converso quanto la sensualità abbia saputo dare al mondo delle parole.
Uscendo, si può pensare il tema unico che dichiarato mancante possa essere questo: il rapporto tra sentire e pensare, tra parlare e vedere, tra la sfera complessa del corporeo e quella della logica, emotivamente semplificata ma ugualmente labirintica.
VIVA ARTE VIVA. 57esima Mostra Internazionale d’Arte Visiva, Venezia, Giardini e Arsenale, fino al 26 novembre