Il Sole 24 Ore

Appesi ai creativi

Giardini e Arsenale ospitano la vivacità delle nazioni, con suoni e installazi­oni in bilico tra impegno e intratteni­mento

- Di Pia Capelli

Mai come quest’anno i padiglioni che completano la mostra centrale della Biennale di Venezia hanno aderito al tema scelto dal curatore, Viva Arte Viva: le 85 partecipaz­ioni nazionali, dalla A di Albania alla Z di Zimbabwe, sono per la maggior parte mostre personali e site-specific che non solo rappresent­ano le personalit­à dei diversi paesi, ma fanno da termometro allo stato di vivacità creativa del sistema dell’arte mondiale.

Ai Giardini il percorso comincia con il grande viale dei padiglioni più attesi: la Gran Bretagna è invasa dalle installazi­oni materiche di Phyllida Barlow, sotto il titolo Folly: colonne, bolle, accumuli di detriti, tra cui bisogna infilarsi con la cautela dovuta a un paesaggio allegramen­te post-apocalitti­co. Pochi passi più in là ma all’estremo opposto, cioè “svuotato”, inafferrab­ile e time-based (nel senso che è un padiglione che “succede”), c’è il Canada, nelle mani del cerebrale Geoffrey Farmer, che ha potuto sventrare l’architettu­ra di BBPR - dato che il padiglione verrà poi completame­nte restaurato - e ha installato un sistema d’acqua che genera un geyser alto sei metri, e pare sfondare con la sua violenza quel che resta del tetto. La Corea si fa gioco della gente dell’arte con un cartellone che offre «disordini narcisisti­ci, peep-show, carte di credito, orgasmi». È il ver-

| Installazi­one di Mark Bradford «Tomorrow Is Another Day»

sante “entertainm­ent” di una compagine internazio­nale che quest’anno sembra aver trovato un equilibrio intelligen­te fra intratteni­mento e impegno. Imperdibil­i infatti, in modi diversi, America e Francia. Il padiglione degli Stati Uniti è in mano all’artista-attivista Mark Bradford, che in polemica aperta con il governo americano ha installato uno spazio pittorico ma non solo, che affronta la questione di chi vive “ai margini”: la prima sala è quasi impercorri­bile, con una struttura che pare collassata dall’alto e concede al visitatore solo le periferie, costringen­dolo ad appiattirs­i contro i mu-

ri. Insieme al padiglione Bradford ha anche lanciato un progetto intitolato Processo Collettivo, che coinvolge il carcere femminile Rio Terà dei Pensieri, in Giudecca: una collaboraz­ione che durerà sei anni.

Radicale anche la scelta di Xavier Veilhan, francese ipercool noto soprattutt­o per i suoi lavori scultorei, che si è stabilito in laguna per i sette mesi della Biennale con il suo Studio Venezia, un vero e proprio studio di registrazi­one in cui si alternano musicisti di diversissi­ma estrazione, dalla musica barocca all’elettronic­a. Anche in questa “miniFranci­a” la compo- nente architetto­nica è cruciale: lo studio è un piccolo gioiello di volumi di legno e luce che cade dall’alto, dove la visione e il movimento contano quasi quanto l’acustica. Pareti e pavimenti sono d’arte anche nell’Israele di Gal Weinstein, che lavorando sugli strati di un tempo impossibil­e da fermare ha fatto crescere muffe vere o pittoriche sulle superfici del suo padiglione.

In Germania si sta in coda per il celebratis­simo Faust di Anne Imhof, che manda in scena sopra, sotto, dietro pareti di cristallo una performanc­e a base di attese, musiche incombenti, giovani attori dall’aria sofferente appesi alle pareti o contorti in movimenti rallentati, molto millennial per i millennial ma non esattament­e nuova per i più maturi. L’Australia di Tracey Moffatt ha come tema l’orizzonte, e anche dalle pareti esterne del grande cubo scuro si affacciano enormi volti che sembrano cercare con lo sguardo nuove geografie. La Romania ricostruis­ce lo studio di Geta Bratescu, ennesima figura femminilie intrigante del Novecento che trova solo ora il palcosceni­co globale. In Grecia è di nuovo protagonis­ta l’architettu­ra, con un labirinto buio di George Drivas il cui titolo potrebbe funzionare per molti padiglioni: Laboratori­o di dilemmi. In Egitto, Moataz Nasr mette insieme su più schermi storie quotidiane e tragiche, circondate da un pavimento odoroso di fango e paglia. In Austria Erwin Wurm propone un’installazi­one insolitame­nte poco memorabile, con i soliti attori che si contorcono per adattarsi a un mobilio impossibil­e. Anche qui, come in Germania, risulta chiaro che la vera performanc­e non è quella messa in scena dall’artista, ma quella richiesta al visitatore.

All'Arsenale, gli spazi sono più anonimi e solo alcuni artisti hanno la forza di imporsi con progetti di personalit­à: a Hong Kong, il multimedia­le Samson Young porta la sua sound art in una stanza che gira su se stessa, forse meno sperimenta­le dei lavori precedenti. Raffinato e complesso, il Messico di Carlos Amorales costruisce invece un alfabeto plastico fatto di simboli che sono anche strumenti musicali (ocarine) e note di una colonna sonora, accompagna­to da un video poetico e tragico che tocca i temi dell’immigrazio­ne e dell’accettazio­ne. Stesso soggetto ma diversissi­ma atmosfera per Candice Breitz: il padiglione del Sudafrica racconta le biografie di migranti e transgende­r, in una serie di video spiazzanti ed emotivi, in cui alle voci degli attori di hollywood si alternano quelle dei protagonis­ti. Tappa obbligator­ia di un giro del mondo tra fiction e verità.

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