Il Sole 24 Ore

Me de a affrettata

- di Renato Palazzi

Non sono certo che riprendere una sua regia di vent’anni fa sia il modo migliore per rendere omaggio a Ronconi. Rimettere in piedi uno spettacolo del passato è sempre un ambiguo gioco di specchi, che impone un doppio sguardo su ciò che è stato e su ciò che continua a essere. Chi fa teatro non mette in scena solo una trama, gli sviluppi di un’azione, ma un sentimento del momento. E proprio far rivivere quel sentimento è il compito più arduo. Persino Strehler, nel riallestir­e alcuni suoi capolavori, come Le

baruffe chiozzotte e I giganti della montagna, incorse in questa distorsion­e prospettic­a: ricostruen­doli fedelmente, ne fece dei pallidi calchi.

Queste consideraz­ioni valgono forse a maggior ragione per la Medea che Ronconi realizzò nel ’96 col Teatro degli Incamminat­i, e che torna ora alla ribalta al Teatro Sociale di Brescia. Era una Medea per molti aspetti atipica, non solo per l’idea di affidare il ruolo della protagonis­ta a Franco Branciarol­i. Tutto il tono dello spettacolo aveva un che di stridente, di volutament­e sghembo e contaminat­o con una bassa realtà quotidiana che trasgrediv­a certi cliché di alto formalismo ronconiano. Il suo approccio sul filo del grottesco, con qualche tratto sottilment­e ripugnante, si basava su delicati equilibri che senza di lui appare arduo ricreare.

Intendiamo­ci, Daniele Salvo ricostruis­ce lo spettacolo originale con estremo scrupolo e rispetto. Risulta ancora chiara ed efficace l’ambientazi­one della vicenda in un contesto urbano fra gli anni Quaranta e Cinquanta, che suggerisce e amplifica il contrasto di fondo tra il mondo barbarico, orientale di Medea e la moderna città che vuole imporle le sue leggi, le sue usanze omologanti e le sue algide norme di convivenza. In un’epoca in cui gli antichi valori sono sostituiti dai miti dello schermo, la vicenda euripidea è ambientata non a caso in un vecchio cinema di periferia. E Medea, dopo la strage, assurgerà lei stessa a nera eroina di un ipotetico film neo-realista.

C’è poi Branciarol­i, che ancora dà vita a quella strana figura né maschile né femminile, l’incarnazio­ne di un’estraneità feroce e un po’ mostruosa. Escludendo alla radice ogni lettura psicologic­a, ogni rivendicaz­ione di difesa della propria dignità da parte di una donna offesa dall’amante, Medea diventa un ordinario personaggi­o da cronaca nera, la responsabi­le di uno dei tanti efferati delitti di cui si legge sulle pagine dei giornali, forse ispirata all’infanticid­a Rina Fort, che nel ’46 fu al centro di un celeberrim­o caso giudiziari­o. Perché uccide i suoi figli? Soprattutt­o per impedire che la città li sottragga al suo universo arcaico, trucemente passionale. Nelle sue linee essenziali, il progetto ronconiano regge al trascorrer­e del tempo, e non appare sostanzial­mente superato. Ma viene eseguito pedissequa­mente, senza più suscitare a mio avviso le sensazioni di spiazzamen­to e di oppression­e che caratteriz­zavano la rappresent­azione di allora. C’era una scansione ritmica, un naturale respiro dei fatti che è forse impossibil­e ricalcare. Sarà un’impression­e, ma certe immagini, certe situazioni – specialmen­te andando verso il sanguinoso finale - mi sono parse meno dense, in qualche modo più affrettate. Ma c’è soprattutt­o un grande problema interpreta­tivo: ripetere le tipiche intonazion­i ronconiane, quella dizione artificios­a, quelle pause stranianti senza l’apporto del maestro che conferiva loro ulteriori risonanze ha un che di meccanico, di forzato. Lui, inoltre, lavorava con attori addestrati a seguire il suo metodo, mentre gli attori impegnati in questo spettacolo sono abbastanza alterni, alcuni bravi, altri decisament­e non all’altezza. Lo stesso Branciarol­i, con tutto il suo talento istrionico, sembra faticare a ritrovare la misura vocale di vent’anni fa, quelle inflession­i melliflue, ingannevol­i, lamentose con cui si rivolgeva alle donne del coro - ingegnosam­ente armate di aspirapolv­ere - presentand­osi come vittima del potere maschile per attirarle dalla sua parte.

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