Materna pioggia di maggio
Èpiovuto. A lungo, placidamente, maternamente è piovuto; quello che doveva succedere a marzo e se no tardivamente ad aprile, è successo solo ora. Ma non importa, siamo ancora in tempo per tutto, la terra ha bevuto bene, lentamente, a fondo, ogni cosa s’è lavata a modino senza dilavarsi e perdersi. Il laghetto s’è colmato e le rane ci impazzano aeree e forsennate, manco che avessero appena approvato una Basaglia bis solo per loro, le albicocche si sono in un attimo inturgidite e le Aurora già son lì che non vedono l’ora di zuccherarsi le gote, l’orzo ha alzato la testa, eretto, indomito, già dorato della mistica aureola del martirio.
Solo le ciliegie hanno sofferto la sete, la sete dei tordi e dei merli e delle taccole e cinciallegre e pettirossi e averle e storni e fringuelli che son venuti anche dall’estero per farsi una bibita ristoratrice qui da noi dove, purtroppo s’è sparsa la voce, ci manca la forza d’animo di fucilarli; e in questo, con tutto il rispetto, siamo in credito con il beato santo Francesco, perché se ci sono senza meno fratello merlo e sorella taccola, c’è anche sorella ciliegia, e fratellino Gian e Richi e Giovanni, che quei tre sono creature innocenti e si spezza il cuore a vederli piangere al capezzale del loro ciliegio spoliato.
Ma è piovuto, e questo conta più di tutto il resto. Per ora non c’è da pensare a niente, c’è solo da fermarsi un attimo a considerare l’improvvisa lucentezza che traluce dalle infinite sfumature del verde. Ho provato a contare, a cinquemilacinquecentocinquanta ho mollato lì.