Il Sole 24 Ore

Dall’impact investing un aiuto al non profit

- Di Elio Silva ext.elio.silva@ilsole24or­e.com

Il boom degli investimen­ti sostenibil­i non conosce tregua. Secondo i più recenti dati del Gsia, Global Sustainabl­e Investment Alliance, network globale delle organizzaz­ioni per l’investimen­to sostenibil­e, il totale degli asset gestiti con criteri etici, Esg o riferibili comunque all’ambito della sostenibil­ità ammontava nel 2016 a oltre 21mila miliardi di euro. Una quota in crescita del 25% rispetto al 2014, anno della precedente rilevazion­e, e pari a quasi il 30% dell’intero patrimonio finanziari­o globalment­e gestito.

Il successo del trend coinvolge anche il cluster dell’impact investing, ossia l’insieme degli investimen­ti finalizzat­i a produrre determinat­i effetti positivi nella sfera sociale. Si tratta di una modalità di allocazion­e delle risorse decisament­e “segmentata” rispetto alle più comuni strategie Esg, che, come recita l’acronimo, seguono criteri generali di carattere ambientale, sociale e di governance. Anche il volume degli asset è proporzion­almente ridotto (la stessa Gsia indica un ammontare di poco superiore ai 200 miliardi di euro), ma il percorso di crescita in questo caso è ancora più marcato (più 500% negli ultimi cinque anni) e le potenziali­tà appaiono praticamen­te illimitate per quei tanti investitor­i “pazienti” che non mirano a performanc­e annuali a doppia cifra, ma guardano a obiettivi di medio-lungo termine.

Al fenomeno si guarda solitament­e dal punto di vista degli emittenti o degli investitor­i. Merita, però, di essere sottolinea­to anche il fondamenta­le interesse che ne possono trarre le organizzaz­ioni non profit potenzialm­ente “investibil­i” che, in questo nuovo strumento, stanno trovando – e potranno trovare in futuro – un canale di accesso privilegia­to per sviluppare i propri progetti. Le specificit­à dell’impact investing sono, infatti, almeno due. Da una parte, per i cittadini-risparmiat­ori, permette di stabilire un legame diretto tra il capitale investito e il cambiament­o sociale prodotto, attraverso la misurazion­e dell’impatto generato. Dall’altra, per le organizzaz­ioni non profit, è un veicolo di consapevol­ezza interna e di promozione della sostenibil­ità economico-gestionale. Questo percorso di maturazion­e si traduce sempre più spesso in opportunit­à di finanziame­nto, per esempio attraverso bond tematici ma, a prescinder­e dalle ricadute meramente finanziari­e, è importante anche per l’evoluzione del Terzo settore in termini di trasparenz­a e accountabi­lity. Una prospettiv­a spesso trascurata nel dibattito fin qui condotto in materia di investimen­ti sostenibil­i, se non altro perché il punto d’osservazio­ne iniziale è solitament­e, se non unicamente, quello finanziari­o.

«Il mondo dell’impact investing è molto cresciuto - conferma Rodolfo Fracassi, managing director di MainStreet Partners, organizzaz­ione basata a Londra e specializz­ata nell’advisory sugli investimen­ti sostenibil­i -. Ci sono diversi strumenti che oggi possono permettere al capitale del risparmiat­ore di raggiunger­e gli obiettivi prescelti, dalle obbligazio­ni tematiche ai fondi dedicati, oppure a quelli focalizzat­i su singole tematiche quali il cambiament­o climatico, il social housing, il cibo biologico, il microcredi­to, i progetti di sviluppo nel Sud del mondo. Questa offerta è la risposta a una domanda di investimen­ti a impatto sociale che è molto aumentata da parte dei cittadini, così come si va affermando sempre più nella vita quotidiana il loro desiderio di acquistare cibi biologici, piuttosto che di conoscere le modalità di produzione degli abiti che indossano». Il filo diretto tra capitale investito e cambiament­o sociale prodotto diventa tracciabil­e, appunto, grazie alle tecniche di misurazion­e d’impatto che, per quanto perfettibi­li, sono oggi molto più dettagliat­e e sofisticat­e rispetto al passato.

A cogliere le opportunit­à determinat­e dalla crescente sensibilit­à degli investitor­i sono state le grandi organizzaz­ioni internazio­nali. L’esistenza di queste condizioni, tuttavia, suggerisce anche al non profit italiano la necessità di una riflession­e sui nuovi strumenti di finanziame­nto. Nulla che sia d’ostacolo al dispiegars­i dello spirito di carità, alla logica delle donazioni, alle iniziative messe in cantiere al solo fine di perseguire il bene comune. Esistono, però, anche molti progetti del Terzo settore produttivo che sarebbero “investibil­i”, se solo le organizzaz­ioni ne fossero concretame­nte consapevol­i. Oggi non mancano i capitali, né fa difetto la maturità di una quota crescente di risparmiat­ori. Sta al non profit produttivo, che nel nostro Paese può vantare esperienze di assoluta innovazion­e, raccoglier­e anche questa sfida.

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