Consulenti responsabili se non accettano l’invito delle Entrate
La società di consulenza contabile paga i danni al cliente se non “accetta” l’invito delle Entrate per un incontro, preferendo la strada di un condono che si rivela impossibile. E il danno è dovuto anche se manca la prova che, rispettando l’invito delle Entrate, si sarebbe evitato l’accertamento. La Cassazione, con la sentenza 11213/2017 del 9 maggio, ha quindi respinto il ricorso dei consulenti.
Alla Srl si era rivolta la titolare di una lavanderia-tintoria per la cura della contabilità fiscale della propria attività: un incarico rispetto al quale, secondo la cliente, si era resa inadempiente. I consulenti, pur avendo ricevuto la documentazione dall’assistita, non avevano risposto all’invito a comparire delle Entrate, limitandosi a consigliare un condono che si era rivelato non realizzabile. La cliente si era fidata, aveva seguito il suggerimento e pagato 3mila euro, salvo poi ricevere un avviso di accertamento dal quale risultava che il debito, non più condonabile, superava i 12mila euro compresi sanzioni e interessi. A quel punto i consulenti avevano suggerito la rateizzazione, con un ulteriore aggravio di interessi. Da qui la richiesta di danni.
I professionisti, dal canto loro, hanno presentato ricorso contro la Corte d’appello, che aveva considerato provato l’inadempimento dell’incarico. Secondo i ricorrenti, il danno non poteva considerarsi documentato in assenza di una “dimostrazione” positiva: nulla faceva presumere, infatti, che in caso di incontro con l’Agenzia ci sarebbero stati effetti più favorevoli. Inoltre, la cliente non aveva dimostrato neppure di aver fornito ai consulenti tutta la documentazione utile, compresa la procura ad agire per suo conto.
La responsabilità del fatto conte- stato, a parere dei ricorrenti, era esclusa dalla mancata congruità della documentazione fiscale prodotta rispetto agli studi di settore. È infatti evidente – sostiene la difesa – che la “attendibilità” o meno dei redditi denunciati ai fini fiscali non è imputabile al professionista che redige la dichiarazione Irpef, salvo prova contraria.
Per la Cassazione la sentenza impugnata dimostra il conferimento dell’incarico, la trasmissione dei documenti, la negligente assenza all’incontro con le Entrate e la mancata prospettazione delle conseguenze. Non passa neppure la contestazione sulla mancata prova del “nesso” tra l’assenza di negligenza e il risultato positivo.
L’impossibilità di dimostrare che si sarebbe potuto evitare l’accertamento tributario è un argomento su cui i ricorrenti avevano insistito, precisando che la loro era una prestazione di mezzi e non di risultato. La Cassazione dà atto che non era possibile attendersi dai consulenti che la cliente evitasse qualunque sanzione, ma era legittimo pretendere che i professionisti partecipassero all’incontro e negoziassero una sanzione inferiore, senza limitarsi a suggerire – sbagliando – la strada del condono.
Quanto stabilito dalla Corte d’appello è dunque in linea con la giurisprudenza della Cassazione secondo la quale, nel procedimento disciplinare a carico di un professionista, l’individuazione delle regole deontologiche, la loro interpretazione e la loro applicazione nel valutare gli addebiti riguardano il merito del procedimento e non sono sindacabili in sede di legittimità, se adeguatamente motivate. Questo quando le censure, come nel caso esaminato, «si riferiscono a precetti extragiuridici, ovvero a regole interne alla categoria, e non ad atti normativi».