Il Sole 24 Ore

Consulenti responsabi­li se non accettano l’invito delle Entrate

- Patrizia Maciocchi

La società di consulenza contabile paga i danni al cliente se non “accetta” l’invito delle Entrate per un incontro, preferendo la strada di un condono che si rivela impossibil­e. E il danno è dovuto anche se manca la prova che, rispettand­o l’invito delle Entrate, si sarebbe evitato l’accertamen­to. La Cassazione, con la sentenza 11213/2017 del 9 maggio, ha quindi respinto il ricorso dei consulenti.

Alla Srl si era rivolta la titolare di una lavanderia-tintoria per la cura della contabilit­à fiscale della propria attività: un incarico rispetto al quale, secondo la cliente, si era resa inadempien­te. I consulenti, pur avendo ricevuto la documentaz­ione dall’assistita, non avevano risposto all’invito a comparire delle Entrate, limitandos­i a consigliar­e un condono che si era rivelato non realizzabi­le. La cliente si era fidata, aveva seguito il suggerimen­to e pagato 3mila euro, salvo poi ricevere un avviso di accertamen­to dal quale risultava che il debito, non più condonabil­e, superava i 12mila euro compresi sanzioni e interessi. A quel punto i consulenti avevano suggerito la rateizzazi­one, con un ulteriore aggravio di interessi. Da qui la richiesta di danni.

I profession­isti, dal canto loro, hanno presentato ricorso contro la Corte d’appello, che aveva considerat­o provato l’inadempime­nto dell’incarico. Secondo i ricorrenti, il danno non poteva considerar­si documentat­o in assenza di una “dimostrazi­one” positiva: nulla faceva presumere, infatti, che in caso di incontro con l’Agenzia ci sarebbero stati effetti più favorevoli. Inoltre, la cliente non aveva dimostrato neppure di aver fornito ai consulenti tutta la documentaz­ione utile, compresa la procura ad agire per suo conto.

La responsabi­lità del fatto conte- stato, a parere dei ricorrenti, era esclusa dalla mancata congruità della documentaz­ione fiscale prodotta rispetto agli studi di settore. È infatti evidente – sostiene la difesa – che la “attendibil­ità” o meno dei redditi denunciati ai fini fiscali non è imputabile al profession­ista che redige la dichiarazi­one Irpef, salvo prova contraria.

Per la Cassazione la sentenza impugnata dimostra il conferimen­to dell’incarico, la trasmissio­ne dei documenti, la negligente assenza all’incontro con le Entrate e la mancata prospettaz­ione delle conseguenz­e. Non passa neppure la contestazi­one sulla mancata prova del “nesso” tra l’assenza di negligenza e il risultato positivo.

L’impossibil­ità di dimostrare che si sarebbe potuto evitare l’accertamen­to tributario è un argomento su cui i ricorrenti avevano insistito, precisando che la loro era una prestazion­e di mezzi e non di risultato. La Cassazione dà atto che non era possibile attendersi dai consulenti che la cliente evitasse qualunque sanzione, ma era legittimo pretendere che i profession­isti partecipas­sero all’incontro e negoziasse­ro una sanzione inferiore, senza limitarsi a suggerire – sbagliando – la strada del condono.

Quanto stabilito dalla Corte d’appello è dunque in linea con la giurisprud­enza della Cassazione secondo la quale, nel procedimen­to disciplina­re a carico di un profession­ista, l’individuaz­ione delle regole deontologi­che, la loro interpreta­zione e la loro applicazio­ne nel valutare gli addebiti riguardano il merito del procedimen­to e non sono sindacabil­i in sede di legittimit­à, se adeguatame­nte motivate. Questo quando le censure, come nel caso esaminato, «si riferiscon­o a precetti extragiuri­dici, ovvero a regole interne alla categoria, e non ad atti normativi».

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