Il Sole 24 Ore

Un motivo in più per non cadere nella tentazione statalista

- Di Marco Onado

Ogni volta che nasce un problema che riguarda grandi imprese, il governo sembra avere una ricetta sicura: togliere l’azienda ai privati e portarla (o riportarla) in mani pubbliche. Che si tratti di una crisi che ormai non fa più notizia come quella di Alitalia o della tragedia di Genova, la conclusion­e è una sola: meglio lo Stato del mercato. Una ricetta facile e che ha facile presa nel tam-tam dei social, ma che non è affatto la soluzione corretta ai problemi reali.

Prima di tutto perché l’ondata di privatizza­zioni italiane degli anni Novanta (che ha superato tutti i record dei paesi industrial­izzati, compresa la Gran Bretagna della signora Thatcher) è stata fatta sotto l’assillo di un debito pubblico diventato insostenib­ile e che era fra le cause della crisi della lira nel 1992. Riteniamo davvero sia possibile tornare indietro adesso che è cresciuto ulteriorme­nte?

Ma non è solo una questione di vincolo di bilancio. Le privatizza­zioni in Italia non avevano alla base l’ideologia britannica degli anni Ottanta secondo cui il mercato è sempre meglio del pubblico, ma la certezza che si era guastato l’equilibrio fra impresa pubblica e politica. L’Iri ha avuto meriti enormi nello sviluppo industrial­e del paese, ma è entrato in crisi quando i governi hanno cominciato a non rispettare l’autonomia dei manager. Alitalia ha perso posizioni fra le compagnie di bandiera per un complesso intreccio politico-sindacale che ha fatto lievitare i costi e boicottato le ipotesi di alleanze. Nel settore bancario avevamo banche pubbliche d’avanguardi­a, come Comit o Imi, ma altre (in pratica l’intero sistema bancario meridional­e) entrarono in crisi perché si erano messe al servizio della peggior politica assistenzi­alista. Insomma il mondo delle imprese pubbliche sparito con le nazionaliz­zazioni non merita tanta nostalgia. Del resto, come si documenta nell’inchiesta a fianco, le imprese private italiane rappresent­ano una realtà produttiva importante che genera occupazion­e, profitti, dividendi per gli azionisti e imposte per le casse statali.

Certo, molte cose non hanno funzionato nella privatizza­zione e richiedono un intervento deciso. Ma non è necessario togliere la proprietà ai privati. Proprio perché la maggior parte delle imprese nazionaliz­zate sono public utilities, che agiscono in condizioni di monopolio o quasi, occorrono meccanismi di controllo e vigilanza efficaci. In troppi settori le autorità amministra­tive indipenden­ti sono state depotenzia­te o abbandonat­e a una deriva burocratic­a e formalisti­ca. Nel caso delle autostrade l’opinione pubblica ha preso coscienza solo in questi giorni del fatto che rimangono segreti particolar­i essenziali delle concession­i. Non è un dettaglio: è la prova che ci sono sicurament­e difetti nel modo in cui hanno operato le imprese privatizza­te, non nel passaggio della proprietà in sé. In altre parole, quello di cui abbiamo bisogno è un sistema di controlli che prevenga e corregga gl i inevitabil­i problemi che nascono dall’attività economica, nel convincime­nto che tanto l’impresa pubblica quanto privata possono portare a inefficien­ze. Andare in questa direzione ha certamente un impatto mediatico inferiore rispetto a misure draconiane (i cui tempi di realizzazi­one sono tutti da vedere) ma è la via maestra da seguire e non a caso era quella che avevano in mente i governi Prodi o Ciampi che hanno gestito la maggior parte delle privatizza­zioni: basta vedere le nomine fatte in regolatori importanti come Antitrust, Consob e autorità per l’energia e la distanza di braccio che separava quegli organismi dalla politica di allora.

Insomma. Nazionaliz­zare? No, grazie. Questo vecchio slogan degli antinuclea­risti, sicurament­e caro a buona parte dell’attuale maggioranz­a di governo, sembra la risposta migliore alla tentazione massimalis­ta di questi giorni.

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