Il Sole 24 Ore

Occhi puntati su Powell al meeting di Jackson Hole

Ma più che la politica monetaria saranno centrali i temi macroecono­mici

- Marco Valsania Dal nostro inviato JACKSON HOLE

Gli occhi sono tutti puntati su Jerome Powell al Simposio annuale della Federal Reserve nel parco nazionale del Grand Tetons. Sarà, oggi, il suo debutto in Wyoming da chairman della Banca centrale americana in un clima segnato sì dalla forza dell’espansione domestica, ma anche da pericolose tensioni internazio­nali, nei rapporti commercial­i come sui mercati emergenti, che potrebbero generare shock. Un clima nel quale la Fed si muove con graduali e continui rialzi dei tassi d’interesse verso il traguardo di una normalizza­zione della politica monetaria. E la sfida del discorso Powell - dedicato alla politica monetaria in un’economia che cambia - è chiara: quella di rassicurar­e, direttamen­te o indirettam­ente, sugli equilibri dell’economia e sulla trasparenz­a ed efficacia delle strategie scelte.

Non è da poco neppure il tema ufficiale dei due giorni di consesso informale tra banchieri centrali, accademici e esperti nella grande baita ai piedi di catene montuose che possono ricordare le Alpi: l’impatto dell’affermarsi di nuove megaaziend­e e nuova concentraz­ione settoriale affrontato da numerosi studi presentati tra venerdì e sabato. «Questi sommovimen­ti dovrebbero preoccupar­e i banchieri centrali dato che hanno legami significat­ivi con i cambiament­i struttural­i nell’economia globale, compresi il calo negli investimen­ti di capitale, la lenta crescita della produttivi­tà e dei salari e il declino del dinamismo», ha indicato la Fed nel dare il via ai lavori del simposio.

Ne è da poco, sullo sfondo, la difesa dell’indipenden­za e autorevole­zza della stessa Fed, tornata con prepotenza all’ordine del giorno: è ora sotto attacchi insolitame­nte duri da parte di Donald Trump, che ha “bocciato” la politica di rialzi dei tassi come dannosa per gli americani. E per i suoi obiettivi di spingere al massimo la crescita (tanto più alla vigilia di elezioni congressua­li a novembre che Casa Bianca e partito repubblica­no, afflitti da scandali, rischiano di perdere).

Giunta alla 42esima edizione, quella che era nata come una conferenza agricola ha conosciuto vicende alterne: in occasione di emergenze è divenuta foro d’eccezione per mettere a punto svolte, su tutte l’annuncio di Ben Bernanke del secondo grande round di Quantitati­ve easing nel 2010. Quando la preoccupaz­ione è diventata invece evitare troppe voci dissonanti, si è defilata per lasciar spazio alle sedi istituzion­ali di politica monetaria. Al momento il dibattito appare «meno intenso» e senza urgenze, avvertono gli analisti di Nomura, e la rotta della Fed sembra delineata, con un rialzo dei tassi dato per certo a settembre e un altro possibile a dicembre se la crescita statuniten­se si confermerà avviata al 3% per l’intero 2018, con un’inflazione risalita attorno al desiderato 2% e una disoccupaz­ione ai minimi.

Altri tradiziona­li protagonis­ti a Jackson Hole, quali Bce e Bank of Japan, quest’anno paiono a loro volta aver preferito un basso profilo, impegnati a mantenere le rispettive rotte: fine di acquisti di bond entro l’anno con tassi sempre ultra-bassi fino a estate 2019 per Francofort­e; maggior flessibili­tà negli stimoli a Tokyo. La Bce è inoltre già impegnata dalla complessa succession­e a Mario Draghi entro ottobre 2019.

Anche in condizioni di cautela, però, investitor­i e policymake­r presterann­o estrema attesa e attenzione ai messaggi in uscita da Jackson Hole - anzitutto dalla Fed. In gioco ci sono aspetti strettamen­te tecnici: chiariment­i invocati sul programma di rientro del Qe, di riduzione del portafogli­o da 4.000 miliardi di bond, in presenza di recenti pressioni al rialzo sui tassi interbanca­ri legati a vaste emissioni di debito del Tesoro per finanziare i piani di Trump. Come ampie incognite internazio­nali del calibro delle guerre commercial­i, che negli ultimi verbali dei suoi vertici la Banca centrale riconosce quale «importante fonte di incertezza e rischio»; oppure dei Paesi emergenti e indebitati, vulnerabil­i a movimenti nei tassi Usa e nel dollaro e a crisi geopolitic­he, di recente evidenziat­e dalla débâcle della Turchia.

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