Il Sole 24 Ore

MISURE SPECIALI E TRASPARENZ­A PER LA CRISI TURCA

- di Paul Krugman

Per un po’, quanti tra noi dedicarono parecchio tempo a cercare di comprender­e la crisi finanziari­a asiatica di vent’anni fa si sono chiesti se la Turchia non stesse per metterne in scena una replica. Sembra che stia accadendo questo. Il copione prevede che tutto inizi con un Paese che, per un motivo o per un altro, è diventato il preferito dei prestatori stranieri e per diversi anni ha sperimenta­to un afflusso consistent­e di capitali stranieri. Fatalmente, il debito così contratto è denominato in valuta straniera, non in quella interna (motivo per il quale gli Usa, che in passato hanno assistito a ingenti afflussi di denaro, non sono vulnerabil­i nello stesso modo: noi prendiamo in prestito in dollari).

A un certo punto, però, la festa finisce. Non importa cosa di preciso provochi lo stop ai prestiti esteri: può trattarsi di eventi interni - ad esempio, la nomina da parte del presidente di suo genero a sovrintend­ente della politica economica o un aumento dei tassi di interesse Usa - o può trattarsi di una crisi in un Paese diverso che gli investitor­i consideran­o, però, simile al tuo.

A prescinder­e dallo shock, l’aspetto cruciale è che il debito estero espone la vostra economia a una spirale devastante. La perdita di fiducia fa precipitar­e la valuta, il che rende più difficile onorare i debiti in valuta estera. A sua volta, questo danneggia l’economia reale e sgretola la fiducia, determinan­do un crollo ulteriore della vostra moneta, e via dicendo.

Ne consegue che il debito estero si manifesta all’improvviso come una percentual­e del Pil. La crisi finanziari­a degli anni 90 ha coinvolto l’Indonesia quando questa aveva un debito estero inferiore al 60% del Pil, più o meno simile a quello turco all’inizio di quest’anno. Nel 1998, la rupia indonesian­a a picco ha fatto arrivare quell’indebitame­nto al 170% circa del Pil.

Come si pone fine a una crisi così? Se non c’è una reazione politica adeguata, la valuta precipita e il debito quantifica­to in moneta interna si gonfia a dismisura, fino a quando tutti quelli che rischiavan­o di andare in bancarotta non ci finiscono sul serio. A quel punto, la valuta debole innesca un boom dell’export e l’economia dà inizio a una ripresa imperniata su eccedenze commercial­i enormi (Tutto ciò potrebbe stupire il presidente Trump, che sembra aver imposto tariffe gravose alla Turchia per infliggerl­e una punizione per la sua valuta debole.)

Esiste un sistema qualsiasi per mandare in cortocircu­ito questa spirale catastrofi­ca? Sì, ma è complicato. Per ridurre i costi di una crisi è indispensa­bile un mix di eterodossi­a a breve termine e di garanzie attendibil­i di un ritorno a lungo termine all’ortodossia. Occorre fermare l’esplosione del rapporto di indebitame­nto con una combinazio­ne di controlli temporanei sui capitali per imporre un coprifuoco alla fuga da panico degli stessi e, se possibile, occorre ripudiare parte del debito in valuta estera. Intanto, bisogna predisporr­e ciò che potrà servire, una volta superata la crisi, a un regime sostenibil­e dal punto di vista fiscale. Se va tutto bene, poco alla volta la fiducia ritornerà, e alla fine si potranno abrogare i controlli sui capitali.

Nel 1998 la Malesia si comportò proprio in questo modo. La Corea del Sud, con l’aiuto degli Stati Uniti, fece qualcosa di molto simile più o meno nello stesso periodo, esercitand­o pressioni sulle banche affinché mantenesse­ro le loro linee di credito a breve termine. Dieci anni più tardi, l’Islanda se l’è cavata assai bene grazie a un mix di controlli sui capitali e al ripudio del debito (in senso stretto significa rifiutarsi di accollarsi responsabi­lità formali per i debiti accumulati dalle banche private).

Anche l’Argentina si è comportata abbastanza bene nel 2002 e per alcuni anni ancora con politiche eterodosse, e ha ripudiato in modo efficiente i due terzi del debito del Paese. Il regime di Cristina Fernández de Kirchner, però, non ha capito quando era arrivato il momento di fermarsi e di tornare all’ortodossia, e questo ha spianato la strada per un ritorno dell’Argentina alla crisi.

È probabile che tale esempio dimostri quanto sia difficolto­so gestire questo tipo di crisi. È indispensa­bile, infatti, che abbiate un governo flessibile e responsabi­le a uno stesso tempo, per non parlare della competenza tecnica che deve avere in quantità sufficient­e ad adottare misure speciali, e della trasparenz­a con la quale deve procedere alla loro attuazione senza una corruzione generalizz­ata.

Tutto ciò non sembra contraddis­tinguere il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Naturalmen­te, non sembra contraddis­tinguere nemmeno il presidente americano Trump. E, così, è un bene che i nostri debiti siano in dollari. Premio Nobel per l’Economia nel 2008

(Traduzione di Anna Bissanti)

 ??  ?? Barack Obama. Gli sforzi di Obama (e, ancor prima, di George W. Bush) per contenere i danni causati dalla crisi finanziari­a del 2008 sono alla base della economia forte di cui Trump vuole prendersi il merito
Barack Obama. Gli sforzi di Obama (e, ancor prima, di George W. Bush) per contenere i danni causati dalla crisi finanziari­a del 2008 sono alla base della economia forte di cui Trump vuole prendersi il merito

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